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L'ex tesoriere ed ex capogruppo del Pd rinviati a giudizio
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Non è peculato, ma i sintomi ci sono tutti. In sostanza, è quello che ha scritto il giudice per l'udienza preliminare, Roberta Bossi, nelle motivazioni della sentenza con cui ha assolto Mario Amelotti e Antonino Miceli, rispettivamente ex tesoriere ed ex capogruppo del Partito Democratico, per due capi d'imputazione, ma non per il terzo. 

Il "modus operandi" dei due tra il 2010 e il 2012 sarebbe dunque "sintomo" di quel reato. Il che non impedisce di assolvere Miceli per due capi di imputazione in concorso con Amelotti (peculato per circa 240 mila euro), ma impone di rinviarlo a giudizio per peculato e falso per la cifra ci circa 38 mila euro. Il gup aveva rinviato a giudizio altre 22 persone tra cui Edoardo Rixi, assessore regionale allo Sviluppo, e Francesco Bruzzone, attuale presidente del consiglio regionale.

In pratica, scrive il giudice, il capogruppo emetteva assegni che il tesoriere incassava per avere disponibilità di contanti. Con quei soldi, venivano pagati fornitori, una dipendente e rimborsati i consiglieri del Pd che lo chiedevano ma non veniva tenuta una contabilità precisa in cui ogni singola spesa fosse riconducile al singolo eletto. Tale condotta non è peculato, in quanto Miceli e Amelotti non si sarebbero impossessati materialmente delle cifre rimborsate dalla Regione. Ma il modo di agire suggerisce al giudice che si trattasse di peculato per distrazione.

Per il secondo episodio Miceli è stato rinviato a giudizio, per peculato e falso, con l'accusa di avere presentato un rendiconto in Regione in cui viene falsamente indicato che le spese effettuate dai consiglieri sono spese istituzionali. "In quel momento infatti - sostiene il gup - il capogruppo viene in possesso dei contributi pubblici per uno scopo che non è quello istituzionale".