Malaria e COVID-19 sono malattie diverse, entrambe dovute a infezioni: la prima causata da un plasmodio, la seconda da un virus, SARS-CoV-2, ormai molto conosciuto sebbene si sia affacciato sulla scena mondiale solo da poco più di un anno. La convivenza, invece, tra plasmodio e l’uomo dura da molto più tempo, almeno da 50.000 anni, nei territori del mondo dov’è presente la zanzara che trasmette all’uomo il plasmodio. In Italia la malaria è ormai scomparsa, ma fino agli anni ’50 del secolo scorso era endemica in molte zone costiere del sud Italia e delle Isole, come pure in zone paludose, come quelle alla foce del Po.
La teoria del team di ricerca guidato da Andrea Cavalli è che i geni che sono in grado di proteggere la popolazione dall’infezione malarica possano fornire una forma di protezione anche per l’infezione da SARS-CoV-2. La ricerca ha inoltre cercato di spiegare l’effetto biologico che queste variazioni genetiche possono esercitare sull’infezione da SARS-CoV-2 e sulla progressione della malattia, suggerendo possibilità terapeutiche potenzialmente utili. Lo studio ha quindi aperto nuove conoscenze teoriche sulla relazione tra genetica dell’ospite e COVID-19.
Antonio Amoroso, genetista dell’ospedale Molinette e dell’Università di Torino, inoltre uno degli autori dello studio, spiega che: “L’idea di approfondire il legame tra COVID e malaria è venuta osservando la frequenza di COVID-19 nelle regioni italiane, con ampie oscillazioni tra regioni del nord (in Lombardia ad esempio l’8,1% della popolazione ha contratto la malattia) e quelle meridionali, dove il COVID-19 ha avuto una frequenza quasi dimezzata (il 4,4% dei siciliani si è ammalato, il 3,4% dei sardi o il 3.3% dei calabresi). Poiché erano disponibili i dati di mortalità nelle province italiane all’inizio del ‘900, è stato possibile confrontare la mortalità per malaria di allora con la frequenza attuale di COVID-19.
Si è ottenuta una connessione molto chiara: nei territori dov’erano più frequenti i morti di malaria all’inizio del secolo scorso, meno frequentemente sono registrati oggi i malati di COVID, e viceversa. All’inizio del secolo scorso ogni centomila soggetti, ne morivano per malaria 73 in Sardegna, 24 in Sicilia e 32 in Calabria, mentre non ce n’erano in Lombardia o in Piemonte. Le Province del delta del Po erano anch’esse flagellate dalla malaria, con mortalità all’inizio del secolo scorso analoghe alle regioni del Sud. Ma anche la diffusione del COVID più di 100 anni dopo ha risparmiato maggiormente le province di Ferrara (dove i casi di COVID-19 rappresentano il 6,5% della popolazione) e di Rovigo (con il 5,9% della popolazione è risultata COVID positiva).”
Si è ottenuta una connessione molto chiara: nei territori dov’erano più frequenti i morti di malaria all’inizio del secolo scorso, meno frequentemente sono registrati oggi i malati di COVID, e viceversa. All’inizio del secolo scorso ogni centomila soggetti, ne morivano per malaria 73 in Sardegna, 24 in Sicilia e 32 in Calabria, mentre non ce n’erano in Lombardia o in Piemonte. Le Province del delta del Po erano anch’esse flagellate dalla malaria, con mortalità all’inizio del secolo scorso analoghe alle regioni del Sud. Ma anche la diffusione del COVID più di 100 anni dopo ha risparmiato maggiormente le province di Ferrara (dove i casi di COVID-19 rappresentano il 6,5% della popolazione) e di Rovigo (con il 5,9% della popolazione è risultata COVID positiva).”
Manlio Tolomeo, coautore dello studio e medico al Policlinico di Palermo chiarische che: “Sappiamo molto bene come la convivenza con la malaria abbia selezionato alcune caratteristiche genetiche che consentivano di resistere meglio all’infezione malarica e che avvantaggiavano di conseguenza gli individui che le possedevano. L’ipotesi che abbiamo avanzato è stata dunque che alcune delle caratteristiche genetiche che erano state selezionate per essere vantaggiose per l’infezione malarica potessero anche aiutare nel combattere meglio il coronavirus”.
Andrea Cavalli, Responsabile del team Computational and Chemistry Biology dell’Istituto Italiano di Tecnologia e coordinatore del team di ricerca illustra: “Per dimostrare questa ipotesi ci siamo avvalsi dei dati già disponibili dalla comunità scientifica, sia in relazione alle varianti genetiche di protezione alla malaria (ne abbiamo selezionate una cinquantina), sia relative alle caratteristiche del genoma di un migliaio di individui sani appartenenti ad una cinquantina di diverse popolazioni, per le quali erano anche disponibili le frequenze del COVID-19”.
Marta Rusmini e Paolo Uva, coautori del lavoro e ricercatori presso l’Unità di Bioinformatica Clinica dell’Istituto G. Gaslini precisano che: “Partendo da questi dati e dall’esperienza nello studio delle malattie genetiche, siamo quindi andati alla ricerca delle varianti più frequenti nelle popolazioni meno colpite dal COVID-19 e che fossero in grado di avere un impatto sul comportamento dei geni - e quindi potenzialmente vantaggiose contro il coronavirus. Questo studio contribuisce ad approfondire la relazione tra genetica e suscettibilità al COVID-19”e fornisce un solido approccio metodologico che potrà essere applicato per studi futuri direttamente sul DNA di pazienti COVID.”
IL COMMENTO
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