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Sulla catastrofe valenciana gli elementi a disposizione sono ancora insufficienti per capire come un disastro prevedibile, in senso statistico, si sia trasformato in una catastrofe epocale. I colleghi della Università Politecnica di Valencia sono stati miei partner in vari progetti scientifici a cavallo del secolo e posso quindi escludere che, in campo scientifico, sia mancata la percezione del rischio idraulico in quell’area. Pur nell’incertezza, comunque, qualche lezione si può già trarre.

Grazie a una importante opera idraulica, terminata nel 1969, il cuore della città di Valencia non è stato inondato. Dopo la grande alluvione valenciana del 14 ottobre 1957 che provocò quasi cento vittime, il Rio Turia fu scolmato in un deviatore costruito con visionaria generosità. Se il disastro del 1957 era stato provocato da una piena di circa 3.800 metri cubi al secondo (mc/s), lo scolmatore ha una capacità di 5.000 mc/s. Durante il recente disastro, il Turia ha toccato un picco di soli 2.000 mc/s, assai meno della sua attuale officiosità. E nel paleo-alveo cittadino del Turia non sono stati costruiti edifici, infrastrutture, grattacieli dipinti di verde, ma si è creato un parco, il Jardì del Tùria, di grande impatto paesaggistico, ecologico, ricreativo e sociale. La prima lezione riguarda l’utilità delle opere idrauliche, soprattutto se pianificate secondo una visione complessiva, progettate a regola d’arte, realizzate con cura e ben gestite.

I progetti scientifici a cui ho accennato, avevano studiato cause ed effetti delle piene lampo in molti casi salienti, dal Bisagno genovese al Secchia emiliano, al Brue inglese, a Murg e Modau tedeschi, a una varietà di piccoli corsi d’acqua svizzeri, austriaci e francesi. Nell’area valenciana, era emersa subito la pericolosità dei torrenti minori, come il Rio Magro e, soprattutto, la Rambla del Poyo. Quest’ultimo è un torrente effimero, quasi sempre asciutto, che attraversa l’area metropolitana a ovest e sud di Valencia, dove vivono 325mila persone e si trova il 70 percento delle industrie. Qui il picco di piena ha raggiunto 3.000 metri cubi al secondo, un valore cinquecentennale secondo le stime di allora, a fronte di una officiosità idraulica paurosamente insufficiente di 1.300. Una capacità del tutto carente, ma difficilmente migliorabile per via della densa urbanizzazione. Come seconda lezione, la nozione della pericolosità non basta, se poco o nulla si fa per ridurre esposizione e vulnerabilità. A sua volta, la diga del Rio Magro, che ha invasato 37mila metri cubi d’acqua durante la meteora battezzata DANA dai meteorologi, ha scongiurato una catastrofe di proporzioni ancora maggiori. E conferma come, qualche volta, le opere idrauliche siano utili.

Le auto sono state le vere protagoniste della catastrofe, così come accaduto in molti disastri nostrani. La processione delle auto mobilizzate dalle acque ha fatto crescere di un metro e mezzo la profondità dell’allagamento rispetto alle previsioni dei modelli matematici. E ha destato una vasta emozione non solo la miriade di sottopassi stradali sommersi, ma anche e soprattutto l’autosilo di Aldaia, un garage da 5.700 posti, occupato da 800 auto al momento della improvvisa inondazione. Come ho scritto molte volte, l’auto è l’arma più devastante dell’arsenale di Giove pluvio: nove vittime su dieci dell’uragano Harvey (2017) furono provocate a Houston dal rapporto insensato tra uomo e auto. E l’autosilo è il suo cavallo di Troia.

In Liguria, una regola spesso contestata suggerisce una barriera fisica per gli autosilo ipogei nelle aree a media e bassa pericolosità idraulica. Alla vigilia della Colombiadi genovesi del 1992, questa regola non esisteva ancora, quando il prefetto interpellò un paio d’idraulici di buona volontà, un collega scomparso da poco e chi scrive. Bisognava assentire al grande autosilo ipogeo in costruzione sotto la Piazza della Vittoria. Progettisti e costruttori non furono teneri con gli esperti chiamati al capezzale prefettizio, memore di comuni esperienze di Protezione Civile. Alla fine, architetti e costruttori accettarono di sopralzare gli accessi e ogni altra connessione con l’esterno. La gente imprecava sul dosso in entrata e uscita o sulle scalinate apparentemente insensate. Nel seguito, in più di una occasione, la piazza è stata inondata dalle acque del fiume sepolto, il Bisagno, o dalla tracimazione dei rivi minori, senza che un filo d’acqua sia penetrato nel garage.

L’analogo autosilo costruito nelle vicinanze in quegli stessi anni non aveva goduto della stessa cautela. L’ultima alluvione saliente, quella del 2014, sommerse più di cento veicoli, per fortuna senza vittime. Non era la prima volta, perché il fenomeno si era verificato tal quale durante l’alluvione del 1992. Si sa che la storia si ripete sempre due volte. Secondo Karl Marx la prima volta come tragedia, la seconda come farsa; ma dubito che i proprietari dei veicoli sommersi possa concordare con il padre del comunismo.

Forte di queste esperienze, ho maturato la convinzione che la difesa del suolo vada costruita dal basso e non dall’alto. Durante il mio impegno nel defunto Comitato Tecnico Regionale per la Difesa del Suolo mi sono sforzato perché queste regole, apparentemente fastidiose, venissero adottate in Liguria. Il disastro spagnolo insegna che laddove diminuire la pericolosità sia praticamente impossibile, ridurre la esposizione dei beni a rischio e la vulnerabilità del territorio è una strada obbligata, anche se talora poco popolare. Misure apparentemente banali di riduzione della vulnerabilità possono evitare che un disastro si trasformi in una catastrofe. È la terza lezione.

Secondo l'Organizzazione Meteorologica Mondiale, un sistema di prevenzione attiva si fonda su due pilastri: early warning o allerta precoce e early action, ossia la tempestiva messa in atto dei provvedimenti atti a limitare l'esposizione al pericolo in termini di vite umane. Su questo punto, così come accaduto dopo le alluvioni genovesi del 2010, 2011 e 2014, si aprirà in Spagna una discussione feroce, probabilmente accesa e lacerante. Non abbiamo ancora elementi sufficienti a esprimere ragionevoli congetture, tanto meno opinioni sensate. Ma si può prevedere che le lezioni della catastrofe valenciana possano influire profondamente sulle attuali modalità con cui ci possiamo difendere in modo attivo dalle alluvioni.

Renzo Rosso, professore Ordinario di Idrologia e Costruzioni Idrauliche al Politecnico di Milano