Vai all'articolo sul sito completo

Commenti

5 minuti e 39 secondi di lettura
di Stefano Rissetto

A volte passo davanti al Bar Pippo, che non si chiama più così e anzi ha cambiato nome più volte. Entro per abitudine, come facevo ai tempi del liceo, traslocato da tempo dalla sede di via Gagliardo. Dietro il banco non c'è più nessuno dei gestori che conoscevo, i figli hanno venduto, quelli di ora sono magari brava gente che però non sa quanto delle nostre vite, quante vite siano passate tra quei muri. Cinque anni della mia, di vita. Entro fino alla saletta in fondo, è rimasta intatta sedie e tavolini a parte, con la grande parete di fondo a specchio che mi riflette ingrigito. Il televisore non è più il parallelepipedo imponente di un tempo, è poco più di un foglio ma sta nello stesso posto. E' spento e non ci sono altri avventori. Mi siedo e ordino non una delle innumeri birre di quel tardo pomeriggio d'estate, che poi chissà se alla fine le avevamo pagate, vabbe' no col putiferio che c'era, ma un caffè e aspetto che mi raggiungano i miei compagni di classe di quarant'anni fa.

Quel 5 luglio 1982, dopo aver visto le partite precedenti a turno a casa di qualcuno di noi, avevamo deciso di andare al bar vicino al liceo ginnasio statale Federico Delpino, come diceva la targa. Tanto era l'ultima, pensavamo. Il Brasile, figuriamoci. Non immaginavamo che avremmo vissuto, davanti a quel Sinudyne a tubo catodico, poggiato su un trespolo come una reliquia, la più grande emozione della nostra vita per un evento sportivo. E nemmeno che quindici anni dopo il Papa, quell'uomo di ferro polacco scampato da poco alle pallottole del KGB, sarebbe arrivato ormai triste solitario y final sulla macchina bianca proprio lì davanti al Bar Pippo.

Di quella partita ho rivisto nel tempo a venire due spezzoni cardinali: le formazioni allineate a centrocampo durante gli inni nazionali, la parata di Zoff su Oscar. E ricordo quel che ci dicevamo tra noi mentre scorrevano le espressioni dei volti del Brasile più forte di sempre, quindi probabilmente la squadra più grande di ogni tempo. Ed era una cosa come: ma cosa ci fanno i nostri lì, anzi cosa ci facciamo noi qui? Forse avremmo dovuto essere là. Alcuni miei amici della gradinata, dopo la vittoria sull'Argentina, erano partiti per Barcellona, all'inizio della telecronaca si era vista una loro bandiera dall'alto dei distinti. Neppure quello stadio esiste più, al suo posto c'è un centro commerciale. Ho visto l'esplosione alla tv, come ho visto distruggere negli anni tanti degli stadi della mia giovinezza. Ma cosa ci erano andati a fare, disse uno di noi che non ero io, per veder perdere dal Brasile.

Quarant'anni dopo, che cosa resta di quella folata di felicità? Forse che eravamo giovani e credevamo di aver capito già tutto della vita, che invece ci avrebbe pensato lei a punirci. Forse che quella partita dimostrava che non c'è niente che non possa essere il suo esatto contrario, vittoria e sconfitta come vita o morte o dolore e gioia. Quando finì "Patria amada Brasil" con Socrates che teneva la mano sul cuore, ed era Socrates, l'undicesimo di una banda di marziani che solo a nominarli facevano paura, noialtri aspettammo di vedere le facce dei nostri. Dall'altoparlante era partito un rullo di tamburi, e poi il nostro caro piccolo inno, ed ecco Tardelli Cabrini e Oriali e Antognoni pronti alla guerra, gli occhi a fessura, la sospetta espressione di chi vorrebbe non essere lì, di chi sperava soltanto che non durasse proprio un'ora e mezza. Però dopo c'era Gentile coi baffi che aveva un solco lungo il viso come una specie di sorriso. E poi il video si ferma, davanti a Rossi e Scirea affiancati, un bambino in gita scolastica e un comandante di stazione dei carabinieri, guardano avanti e non sanno ed è meglio, quindi gli altri fino al volto antico buono per un Rushmore carnico di Zoff, che per noi diciottenni o quasi era un vecchio, coi suoi quarant'anni. Erano le cinque e un quarto della sera e faceva caldo anche a Chiavari.

Il resto l'hanno visto e raccontato tutti e lo custodiamo nel cuore finché avremo un cuore. In tribuna, con Mario Soldati e Giovanni Arpino e Beppe Viola e Gianni Brera, roba che nemmeno il piccolo d'Alema davanti a Togliatti Longo e Suslov, c'era perfino un quarantenne scrittore peruviano di nome Mario Vargas Llosa. Il futuro Nobel dettò a ABC il titolo "Un partido para la memoria" e il pezzo cominciava così: "Sarà una festa da ricordare, della quale ancora si parlerà quando saranno trascorsi molti anni e i suoi protagonisti saranno ormai solo nomi legati alla mitologia del calcio".

Il bello e il brutto del calcio, come della vita che al calcio fa (male) il verso, è che fra il tutto e il niente c'è, appunto, un niente. Ed ecco la parata all'ultimo secondo dell'ultimo minuto del vecchio Zoff sul colpo di testa di Oscar, che solo nel vederlo saltare era stato impossibile non pensare al gol. Nessuno nel mondo aveva capito niente, tranne il vecchio portiere, che prima si era tuffato spinto da chissà quale scarica elettrica ad agguantare quel pallone messo di testa nell'angolino, poi lo aveva tenuto fermo lì, come a fargli la ninna nanna, mentre l'arbitro - che era un ebreo israeliano nato a Timisoara, scampato alla Shoah e alfine venuto da Haifa per quella partita - tutto aveva visto e capito, il suo nome è Abraham Klein e a casa sua ha ancora il pallone della partita, se lo tenne lui perché era giusto così, senza darlo all'unico calciatore nella storia capace di segnare tre gol al Brasile in una partita di un Mondiale. Paolo Rossi era appena ricomparso da un'ombra ingiusta e sarebbe presto sfumato nell'incompiutezza e nella nostalgia e poi in quel grande sonno che lo sottrae, oggi, a una festa quindi triste senza di lui. Sarebbe stato, nella bella estate dell'Ottantadue, il figlio o il fratello di tutti noi. Oggi è un buco nero in questa foresta di stelle che brillano ancora come diamanti in mezzo al cuore.

Il tempo ha fatto una infinita e vana capriola, senza spiegazione come tutto quel che lo riguarda. Dicono che ritorni oppure non si muova, vedremo. Il caffè si è raffreddato, gli amici non sono venuti all'appuntamento da Pippo quarant'anni dopo. Eravamo, noi della IIA di lì a poco IIIA, in cinque come gli amici miei di Germi e Monicelli. Uno oggi insegna; due non so che fine abbiano fatto e non sono nemmeno sui social; uno se ne volle andare da tutto, subito dopo il Mondiale successivo che era forse un pallido presagio, ed è ancora un punto di domanda dei più radiogeni; il quinto sono io. Che scrive queste righe pensando a una canzone di un paio di estati prima: e piangendo ci viene da ridere, ballo anch'io se balli tu.