GENOVA - Mario Draghi aveva sullo stomaco i partiti politici, i partiti politici avevano sullo stomaco Mario Draghi. L'ingloriosa fine della legislatura al tirar delle somme si spiega semplicemente così. E ci riporta alle ore frenetiche in cui il premier venne bruciato come possibile Presidente della Repubblica. "Serve a Palazzo Chigi" fu il refrain. Peccato che adesso non serva più neppure alla guida dell'esecutivo.
Come in tutte le coppie che scoppiano, le responsabilità non stanno tutte da una parte. Il premier nel suo discorso al Senato di mercoledì tutto ha fatto tranne che usare lo strumento della mediazione: ha attaccato i Cinque Stelle, ma ancor più la Lega e in parte Forza Italia. Cioè ha detto pari pari come la pensava su dei partiti che sono stati insieme per mesi e tuttavia per mesi si sono messi le dita negli occhi, sempre più frequentemente mettendole anche in quelli del governo.
Se Draghi fosse voluto rimanere al suo posto, a condizioni "normali", quelle cose lì non le avrebbe dette. O avrebbe usato altre parole, altri toni. Ma Draghi è così, prendere o lasciare. L'ha affermato lui stesso, in fondo, lanciando il suo guanto di sfida ai partiti.
I quali, dal canto loro, non hanno mancato di fargli sapere quanto ce l'avessero in antipatia. I Cinque Stelle, prima di tutto. Ma anche Lega e Forza Italia non si sono fatti mancare nulla, hanno giocato sul Draghi troppo attento alle ragioni del Pd, sul Draghi mal consigliato proprio dal centrosinistra. E così, con la variabile della partecipazione diretta di Forza Italia, costata l'addio della ministra Maria Stella Gelmini, la legislatura si chiude come si era aperta: con un asse fra Lega e Movimento Cinque Stelle (che all'epoca diede origine al primo governo guidato da Giuseppe Conte) stavolta inopinatamente uniti, sebbene per ragioni diverse, nel dare il benservito a Draghi.
Ora molti giornaloni e tanti commentatori televisivi disegnano scenari apocalittici sul futuro del nostro Paese. Personalmente, non mi iscrivo al partito di chi vede nero. Si andrà a votare, prevedibilmente, e mi pare un modo sano di chiudere, pur in anticipo di qualche mese, la legislatura. È un finale disordinato, come usa dire adesso? È vero, ma tirare a campare non rientra fra i desideri di Draghi e neppure sarebbe stato utile al Paese. Se ci saranno le coperture finanziarie e la volontà politica, anche un governo che svolge gli affari correnti in realtà potrà fare cose importanti. Per quanto parliamo di realtà molto diverse, non dimenticherei che il Belgio rimase oltre un anno senza governo e le cose andarono persino meglio di prima!
Alla fine, insomma, è accaduta la cosa più naturale: la politica ha dato il benservito al tecnico e si è ripresa il pallino in mano. E il tecnico, dal suo canto, adesso ha due strade possibili: darsi alla politica, sottoponendosi al giudizio degli elettori, oppure tornare alle sue cose, che fino ad oggi ha fatto benissimo. A Draghi un solo peccato si può rimproverare: aver creduto in tutto e per tutto al movimento di opinione che gli chiedeva di rimanere. Questa cosa l'ha sbandierata arrivando ad affermare, rivolto ai partiti: sono pronto a un nuovo patto ascoltando quanti mi chiedono di rimanere e voi una risposta la dovete non a me, bensì agli italiani. Ecco, qui siamo al tecnico che si sente un padreterno o giù di lì: ma vista la sua bravura e credibilità internazionale possiamo perdonarglielo.
Semmai, più attenzione meritano gli attacchi del leader ligure leghista Edoardo Rixi al governatore Giovanni Toti. Quando si trattò della rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale, che oppose proprio il leader di Italia al Centro e il centrodestra, gli scossoni furono forti, ma alla fine una pezza ci venne messa con il contributo di tutti. Stavolta potrebbe essere diverso, per la banale ragione che si va verso il voto e tutti sono già in campagna elettorale. Quando ci sono di mezzo le urne, però, vale solo una regola: ognun per sé e Dio per tutti.