Di questa folle campagna elettorale in pieno Apocalisse termico, durante la guerra, sotto la pandemia che non finisce, in mezzo a una siccità spaventosa quello che mi colpisce di più è l’impreparazione dell’intera classe politica. Nessuno escluso. Impreparazione a affrontare il voto in tempi rapidi e in questa situazione, come se venissero da Marte e non sapessero che, comunque, entro sei mesi si sarebbero dovuti preparare.
Nessun partito, movimento, rigurgito politico qualsivoglia, era neppure pronto a una sfida tutta diversa, con meno seggi in palio, con i confini dei collegi cambiati. E questa sarebbe solo la geografia del voto, i suoi confini, i numeri-base per i quali si gioca la partita. Figuriamoci la politica vera, gli schieramenti, le alleanze, il dibattito interno. Il Pd scopre che il campo non sarà più largo. Ma va? Non lo avevano capito, tra esilii di Di Battista, strappi di Di Maio e amici suoi, scazzi evidenti dell’elevato Beppe Grillo, pronto alla folgore dei due mandati e niente più.
Cade Draghi e scoprono il Centro, il centrino e i centrista, poi scoprono che la partita è un testa a testa: Letta-Meloni. Ma sotto l’ombrello ultraprotettivo di Draghi cosa stavano facendo, tra vittorie inattese, come quella di Verona e sconfitte clamorose, come quella di Genova? Passeggiavano a larghe falcate dove? Ma nel campo largo, ovviamente.
E ora, di colpo, angosciati si interrogano su come scegliere i candidati nel loro campo più stretto. In Liguria, dove prendono sberle da anni, hanno riflettuto veramente su un cambio generazionale per sostituire magari chi ha sulle spalle cinque legislature, come l’inossidabile Roberta Pinotti?
No, hanno continuato a attorcigliarsi su loro stessi, senza neppure avere fatto una analisi seria della ultra sconfitta di un mese fa. E la destra non sapeva che Meloni aveva un vantaggio incolmabile e che il ruolo di candidata premier è strascritto per lei? Salvini ha ricominciato a abbaiare il suo vecchio disco, contornandosi di Madonne, sperando nel Viminale, suo vecchio pallino, dimenticandosi il suo filoPutinismo.
Berlusconi, rieccolo bello ringiovanito malgrado le 86 primavere, ha rispolverato il long plain del 1994, sostituendo i milioni di alberi ai milioni dei posti di lavoro, ma è l’unico che si è preparato qualcosa. Con la sua ennesima resurrezione, il ringiovanimento, ha preso in contropiede tutti, come il suo Monza in serie A, ma sopratutto ha scosso delfini e delfine della sua lunga storia, costringendo Gelmini, Carfagna, Brunetta e tanti altri meno noti a fare armi e bagagli, in fretta e furia.
Al centro pensavano che la danza non si fermasse come in quella canzone del mitico Franco Battiato, “Cerco un centro di gravità permanente”. Altro che permanente: da Sala a Milano a Renzi ovunque, a Calenda, a Toti saltabeccante, perfino a Di Maio ultraconvertito, a qualche governatore leghista in dissidente silenzio, per non dire l'ex sindaco parmense Fizzarotti. Dove credevano di essere prima: nel posto delle fragole? Erano in un centro, appunto per nulla permanente.
La tela di Penelope da tessere non era affatto pronta. D’altra parte tramavano in molti, ma pensando che Ulisse-Draghi fosse ancora saldo al suo posto, con la cera nelle orecchie e quindi erano sicuri che il tempo per costruire questo ponte a tante arcate ci fosse eccome. Neppure la battaglia del Quirinale con Draghi sconfitto li aveva avvertiti. Si cullavano un po' tutti, senza dirlo, nel presunto “primato della politica”, così spesso evocato mentre i Draghi e, prima, i Monti, facevano il loro sporco lavoro da tecnocrati salva Italia.
E invece il primato non c'era e ora, in questa calda estate del 2022, ce ne stiamo accorgendo tutti, mentre Draghi governa gli affari urgenti, che sono urgentissimi e Partiti e Movimenti mettono insieme i cocci. E la politica liquida continua a colare giù.