Il Pd in preda a una crisi di tafazzismo si auto-processa. Non bastano le critiche della base o dei giornali, ora arrivano quelle più feroci e anche incredibili perché fatte da chi in tutti questi anni a Roma (o in Liguria) ha contribuito pesantemente a determinarle con scelte sbagliate, candidature improponibili, ma senza occuparsi di che cosa questo partito mai nato dovesse essere e fare.
Così assistiamo a un penoso pianto con moti di stizza e rabbia di alcuni dirigenti dotati di eternità parlamentare che chiedono rivoluzioni, rifondazioni, il cambio del nome, l’ennesimo, il ripescaggio della “Cosa” inventata da Achille Occhetto, fino a arrivare alla Bindi che, travolta da una crisi da ricerca di un personale mistico calvario urla: “Sia sciolto immantinente!”.
Il problema è che il Pd, fusione inattuata tra cattolici progressisti e ex comunisti, è sempre stato sciolto, anzi scioltissimo. Con passaggi da un’anima all’altra impensabili come l’ultima candidatura nell’ ex rossa Bologna dell’ex gran capo cristiano democratico Casini.
Ma come si poteva pensare di andare avanti così? Di conquistare giovani disoccupati o operai alle prese con il caro vita? Anziani in perenne lista d’attesa per un esame? Famiglie con bambini e senza asili? Studenti in scuole che crollano? Magari partecipando a tutte le possibili (e impossibili) formule di governo del Paese?
Il risultato è che, come ha spiegato Nando Pagnoncelli di Ipsos dei sei milioni di votanti di Fratelli d’Italia il 34,6 per cento sono operai, il 16,4 ha scelto i Cinquestelle, addirittura più del 13 per cento la Lega, mentre il Pd “di sinistra” si colloca al quarto posto. A Genova vince a Castelletto, Carignano e va bene anche a Albaro, ma lascia i quartieri un tempo “rossi” a FdI, ai Cinquestelle e alla Lega.
A questo punto ha ragione Gianni Barbacetto che su “Il Fatto Quotidiano” scrive che la scelta del Pd, oggi è “o partito del lavoro o Calenda segretario”. Insomma il partito “deve scegliere la sua natura: o neoliberismo o laburismo”. Che tradotto in genovese (città dove Il Pd ha preso più del dato nazionale, cioè ha superato il drammatico 19 per cento) diventa: o partito di Bolzaneto o di Castelletto.
Come si arriverà a questa scelta? Con un congresso, ma forse non sarà sufficiente nemmeno questo percorso perché il danno è diventato troppo antico. Di certo non basterà un nuovo segretario (donna magari) per dare il segno della rifondazione. Intanto si dovrà cominciare affidando il compito di rifare il partito a uno giovane, politicamente giovane, cioè che non ha partecipato in questo ultimo decennio alle spartizioni di poltrone, alle candidature sicure, alle alleanze ballerine. Tutto questo dovrà avvenire prima di decidere se ritornare a parlare al M5s, ammesso che loro lo vogliano fare ancora. Anche perché i delusi che non hanno votato Pd in buona parte sono finiti proprio a rimpinguare il movimento di Giuseppe Conte, fino a qualche settimana fa dato per spacciato (con abbondante soddisfazione anche di molti capi pd).
C’è chi ha richiamato la “discontinuità” quella lanciata da Marta Vincenzi e mai realizzata che quando la propose si prese fischi e pernacchie dai suoi compagni di partito. Oggi qualcuno la rispolvera, magari stando nella stanza delle decisioni da dieci anni.
Ha ragione l’ex governatore Burlando quando chiude un’intervista al “Decimonono” osservando che la discontinuità che serve è soltanto una: chiudere la stagione delle sconfitte e permettere a una nuova generazione di giovani in gamba di diventare forza di governo della nostra regione”.
Ah, trovarli questi giovani...