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di Stefano Rissetto

Come spesso accade dopo le elezioni italiane, si parla molto delle divisioni che condannerebbero alla sconfitta la sinistra. Ma è proprio vero che accada soltanto alla sinistra?

Negli ultimi trent'anni, la destra ha vinto quattro volte le politiche. Nelle prime tre (1994, 2001, 2008) si è suicidata senza un motivo apparente, nella quarta (2022) il rischio di non riuscire neppure a partire si è manifestato fin dal fischio d'inizio, con l'avventurosa elezione  alla presidenza di Palazzo Madama di La Russa, boicottato da Forza Italia si direbbe non per la fede interista.

Le "divisioni" non sono quindi un male peculiare della sinistra. Infatti, nei casi di risultato non netto, i cosiddetti "pareggi" del 2013 e del 2018, si è giunti, più o meno rapidamente, a governi controllati da una sinistra egemonizzata dal Pd più capace di coesione interna nonché espertissima nell'attrazione di "responsabili" utili a puntellarne i numeri.

Chi dice che la sinistra sia penalizzata dalle divisioni interne dimentica che le coalizioni progressiste, Ulivo e Unione, devono le vittorie del 1996 e del 2006 proprio alla frammentazione della destra che, se unita, avrebbe prevalso.

Prodi ottenne la sua prima vittoria grazie alle scelte di Bossi, che prima aveva fatto cadere il Berlusconi I dopo pochi mesi e poi aveva presentato la Lega fuori dalla collocazione altrimenti sempre mantenuta, ovvero saldamente a destra. Accadde solo in quell'occasione.

Il secondo successo del professore reggiano, nel 2006, porta invece il nome - oltre che dei senatori a vita e di quelli, grazie a una legge pasticciata nell'attuazione e da rivedere urgentemente, eletti all'estero - di Giorgio Panto, un industriale veneto dei serramenti che, in polemica con la Lega considerata troppo moderata, da posizioni quindi di destra autonomista presentò una sua lista personale, capace di raccogliere 92mila voti: molti di più dei 25mila che avrebbero fatto la differenza nazionale tra le due coalizioni.

Le divisioni quindi esistono e sono sempre esistite, nell'uno come nell'altro campo. Perfino nei soggetti che nascono per superare il bipolarismo all'italiana, presto o tardi si registrano apostasie, secessioni, personalismi, spinte centrifughe: è successo ai Cinque Stelle, sta cominciando a succedere anche tra le varie anime del Terzo Polo.

Se mai c'è una differenza tra i due modi di dividersi, non sembra stare nella meccanica ma nella genetica. A sinistra i motivi sono riconoscibili, chiari, evidenti; e attengono per lo più a preesistenti divergenze ideologiche, opportunisticamente ricomposte in funzione del voto ma destinate a riemergere strada facendo. Certo, non pochi sospettano ancor oggi che la caduta del Prodi I fosse una sorta di "obsolescenza programmata", ideata e attuata da chi ben sapeva che, ad appena sette anni dalla caduta del Muro, non fosse possibile presentare direttamente agli elettori un candidato presidente del Consiglio nato e cresciuto nel PCI come Massimo D'Alema; più opportuno quindi "nasconderlo" dietro il volto rassicurante di un democristiano di rito dossettiano, da usare per vincere le elezioni salvo accantonarlo alla prima occasione utile.

Sulle reali ragioni dell'implosione della destra dopo le vittorie, c'è più ambiguità. Nessuno ha mai saputo spiegare perché Bossi e i suoi eredi abbiano sempre mantenuto la Lega nella destra, tranne che in quel biennio alla metà degli anni Novanta, partito con il "patto delle sardine" con Buttiglione e D'Alema e chiuso con la scelta solitaria del 1996, autolesionistica in tempi di maggioritario quasi puro.
Parimenti nessuno, neppure i suoi luogotenenti più vicini di allora, sa ancor oggi spiegare la rapidissima metamorfosi di Gianfranco Fini dopo il successo del 2008, una vittoria elettorale che lo aveva messo nella posizione di poter rapidamente scegliere a breve, stando semplicemente fermo, tra Palazzo Chigi e il Quirinale: condizione che l'ex leader di AN disdegnò con apparente noncuranza, ponendo quotidianamente motivi di dissociazione dalla sua parte, dal suo partito e perfino da se stesso, passando dal "Mussolini è stato il più grande statista del Novecento" al "fascismo male assoluto", sposando posizioni talvolta neopannelliane in aperta rottura con la sua stessa storia, fino a scegliere di interpretare una parte tra le meno sostenibili in Italia: quella di capo di una destra gradita alla sinistra, quindi senza elettorato reale. Condannandosi quindi a una precoce irrilevanza, come era successo a Pietro Cerullo e Raffaele Delfino, artefici negli anni Settanta di una simile operazione, la scissione parlamentare del Msi-Dn in "Democrazia nazionale", si disse eterodiretta da Piazza del Gesù, anzi da San Lorenzo in Lucina. Al voto successivo quel partito - il primo della storia repubblicana nato in Aula e non dalle urne, il primo di una sempre più lunga serie di partiti che non nascono più dagli elettori per proporsi in Parlamento, ma nascono in Parlamento per proporsi agli elettori... - venne raso al suolo.

Non appartiene al rango delle vittorie dissipate, ma resta tuttora enigmatico il ruolo spesso svolto dal Berlusconi oppositore, di fatto spesso volenterosa stampella dei governi di sinistra prossimi alla crisi, come ai tempi della guerra nei Balcani, quando era stato proprio il capo dell'opposizione a fornire, "per senso di responsabilità", i voti senza i quali il governo sarebbe caduto. E poche volte in assoluto si è visto un capo dell'opposizione che si premura di non far cadere la maggioranza. E che come editore, proprio in quegli anni, ingaggiava per le sue reti non poche icone dell'antiberlusconismo, come Santoro. Liberamente? Per scelta culturale ed editoriale autonoma e convinta? Per non parlare del ruolo svolto, sempre a fine Novecento, dell'enigmatico Cossiga, storico bersaglio delle sinistre istituzionali come extraparlamentari, improvvisamente non più scritto con la "K" ma, autocresimatosi "straccione di Valmy", schieratosi in modo determinante a favore di chi lo aveva sempre osteggiato fino a evocarne la messa in stato di accusa. Come se avesse qualcosa da farsi perdonare, oppure come se qualcuno ne detenesse qualche segreto. Non si saprà mai.

Quindi le divisioni, dal "patto delle sardine" al "morire per la Ronzulli", ci sono sempre state anche a destra. Non essendo del tutto leggibili in chiaro, vanno scandagliate per capire. Che cosa spinse in passato Bossi e Fini a demolire dall'interno l'assetto grazie al quale erano diventati ministri e presidenti d'aula, piazzando inoltre molti loro sottoposti in ruoli di livello? Che cosa indusse Berlusconi a sorreggere all'occorrenza i "comunisti" tanto esecrati in campagna elettorale, talvolta con toni francamente caricaturali e anacronistici?

La risposta la sa il vento. Vero è che le famose leggi sul "conflitto di interessi", nei lunghi anni di controllo di legislativo ed esecutivo da parte della sinistra, sono sempre state minacciate ma mai approvate, quasi posate sul tavolo come una pistola carica da mostrare alla controparte per indurla a docilità. Vero è anche pure che, nell'opaca vicenda della "casa di Montecarlo", particolarmente odiosa per l'allora elettorato di riferimento, Gianfranco Fini si vide riservare dalla Procura di Roma un trattamento assai inusuale, con il segreto istruttorio rispettato in maniera ermetica fino al giorno dell'archiviazione, in tempi in cui un avviso di garanzia, debitamente "soffiato" alla stampa, stroncava una carriera o addirittura induceva al suicidio.

Molti sono i misteri d'Italia. !uesti sembrano tutto sommato bagatellari, rispetto a quelli cruenti attorno ai quali si gira in tondo da decenni, dalla morte di Wilma Montesi a Capocotta a quella di Mattei a Bascapè, dalla sardana infernale che da Piazza Fontana inghiotte Pinelli e Calabresi, vero cuore di tenebra degli anni di piombo, fino alla forca imposta a Regeni al Cairo. Però sono enigmi che hanno orientato, se non determinato, la storia elettorale e parlamentare degli ultimi trent'anni e quindi quella del Paese, una storia per giunta condizionata dalle ricorrenti intersezioni con l'attività dell'ordine giudiziario, attende ancora una ricostruzione chiara e veridica. Attendersi sincerità dai residui protagonisti e testimoni oculari, certo, sembra cosa vana.

Forse l'Italia non è un Paese da scelte nette. Non veniamo dai Romani, troppo lontani ormai. A disegnare il nostro ritratto sono i pessimisti strutturali: Guicciardini più di Machiavelli, Cuoco più di Mazzini, Leopardi più di Manzoni, Gobetti più di Gramsci. Tutto sommato, rispetto ad altre nazioni, siamo "giovani": vantiamo poco più di un secolo e mezzo di storia condivisa, abbiamo avuto prima lo Stato pontificio, poi un regime autoritario opportunisticamente tollerato dalla maggioranza degli "indifferenti" odiati dal succitato Gramsci, quindi una DC destinata a governare per statuto contro il più grande partito comunista del mondo costretto a cimentarsi con elezioni vere potendole perdere. Troppe anomalie in uno Stato solo.

Eppure, quando la vincitrice delle ultime politiche entra a gamba tesa in una delle prime diatribe di legislatura, dicendo "Io non sono ricattabile", allude chiaramente ad altri che potrebbero esserlo stati e - chissà - esserlo ancora. Forse lancia un messaggio tutt'altro che letterale. Una possibile chiave di decodificazione di quel che non sembra interpretabile.