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di Stefano Rissetto

I fiori veri appassiscono, ti porto così un fiore di carta o meglio, ormai, di punti di luce, nel giorno in cui ci si volge indietro, per capire se stessi, interrogando il silenzio. In questo tempo in bilico come un funambolo tra un passato in frantumi e un avvenire che sembra un buco nero in fondo a un tram, specchio rotto che rimanda infinite immagini incomplete, per ricordare tutti ricordo te. Perché ognuno riconosce i suoi.

E scelgo memorie che non sono state mie, se non nei tuoi racconti. Quei passaggi di ogni vita che vanno in una sola delle innumeri direzioni possibili. La volta che a Pian Pontasco, durante l'occupazione, avevi attraversato un campo di mine tedesche e te n'eri accorto soltanto scavalcata la staccionata e letto il cartello. Oppure la sola occasione nei trent'anni di Tubifera in cui, per la visita di un ministro, avevi indossato il casco che ti avrebbe protetto da una lima, caduta di punta sulla tua testa dal carroponte del capannone del Collaudo. Il punto di via Sedini dove un'auto aveva fatto finire in un fosso te e la tua Vespa, non ti eri fatto niente ma a tuo figlio avresti proibito il motorino. Com'è sottile e fragile il filo tra il tutto e il niente. Anzi un ricordo mio c'è, quello di quando nel 2007 ero a Moena per lavoro e in un albergo assai fatiscente, visitato per goliardia, la vecchia titolare mi fece vedere un ritaglio del Mercantile, con la notizia di un naufragio che aveva visto un suo parente tra gli scampati, e io allora chiesi il registro delle presenze del 1933, visto che erano tutti dietro il bancone del ricevimento, e il 29 luglio giorno della tua nascita tra gli ospiti c'era Kurt Weill, volevo strappare la pagina con la firma del compositore di Alabama Song e di molto altro, ma la vecchia mi teneva d'occhio, il 1933 era anche l'anno in cui Dalì dipingeva il Carro Fantasma. Occorrono davvero troppe vite per farne una.

Da quando non ci sei più, il tuo numero di telefono conservato in memoria ogni tanto lo compongo e sempre la voce femminile sintetizzata mi informa che l'utente da lei chiamato non è al momento raggiungibile, si prega di richiamare più tardi. E quasi sempre subito dopo cerco su youtube la sequenza iniziale del "Cielo sopra Berlino", con quella straziante poesia di Handke, "Canzone dell'infanzia". "Come puó essere che io, che sono io, non c'ero prima di diventare? / E che un giorno io, che sono io, non saró piú quello che sono?".

E' un fiore di carta, di punti di luce ormai, quello che ti porto, nel fiume di fiori fatui che fluisce tra i marmi e i cipressi. Avrei voluto farti vedere, per ricambiare te che me ne avevi fatti vedere tanti, quel film con Bonaparte che si aggira negli immensi corridoi del Louvre, minacciato dai micidiali Junkers con la croce uncinata, e la voce fuori campo che dice: "Chi sarei io, se non avessi visto i volti di coloro che vissero prima di me?". E' qui il senso del tutto e di ogni vita: attraversare ogni giorno con decoro e rigore, in fuga come Enea dalla città in fiamme, portando in spalla Anchise sempre più lieve, sempre più gravoso, perché sfumato tra papavero e memoria.

Questo è un fiore di carta, di punti di luce ormai, in qualche modo colorato e sai perché. Il mio ricordo non mio ci conduce adesso al primo autunno della Repubblica, il giorno che tuo zio ti disse che doveva andare a Chiavari, a parlare con il vescovo della parrocchia nuova che voleva affidargli, ritagliata tra Santo Stefano e Santa Margherita e San Bertumè, e che potevi andare con lui, perché allo stadio c'era una partita di quella squadra nuova. E tu andasti con lui, in bicicletta, dopo il ponte sul fiume ti lasciò vicino al campo sportivo, e tu andasti a vedere la partita, un'amichevole tra l'Entella e quella squadra nuova dai colori strani. E tu, soprattutto bartaliano ma con una certa simpatia per il Grande Torino che grandeggiava dalle radio, visti quei colori e quella maglia scegliesti per te e anche per me, che non c'ero ancora e a tredici anni certo non avevi nemmeno idea se ci sarei stato e chi e come. Tuo padre teneva per l'altra squadra del capoluogo, ma non ti disse niente.

Non ti disse niente, aveva altre e più cupe nuvole allora. C'era la fame e la povertà e c'era altro. Non molto tempo prima aveva fatto cinquanta e passa chilometri a piedi in un giorno solo, da San Bertumé a Pian dei Ratti e ritorno, trainando un carretto all'andata vuoto e al ritorno col carico di suo fratello maggiore morto ammazzato. Eppure non avrebbe mai perso, come te, quel modo di sorridere sempre alla vita e al suo mistero. Mi avresti insegnato, oltre all'amore per le cose belle, quei colori di settimana in settimana, andando in treno a Genova, nell'unico giorno libero che avevi tu e che avevo io, tra la tua fabbrica e le mie elementari. E' andata così, quei colori sono una delle cose che mi restano di te. Non la più importante, ci mancherebbe, ma una di quelle che durano, oltre la speranza che bruciò più lenta di un duro ceppo nel focolare.

Il mistero della vita è simmetrico al mistero del suo contrario. E' questo il senso di un giorno indicibile, senza ragione ma il senso di tutto è oltre la ragione, un giorno che evoca nostalgie e amarezze, dialoghi mancati e incombusti, strazio e interrogativi, ma anche tenerezza e gratitudine per quel che si è avuto. Per parlarne a tutti scelgo questo fiore di carta, di punti di luce ormai, che porto a te. Nell'affettuosa speranza che non te ne rincresca troppo.

In memoriam N.R. (1933-2018)
Nella foto: Salvador Dalì, Il carro fantasma, olio su tela, 1933, Figueres, Fundació Gala-Salvador Dalì.

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