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di Stefano Rissetto

Dalla finestra di una casa all'ottavo piano senza ascensore di San Donato, scale infinite dopo un portone col frontone di marmo e la scritta Pervia coeli, ai tempi dell'università, guardavo laggiù, verso il cratere lunare delle Erbe, una pietraia riarsa con chiazze verdigialle. Quel primo domicilio provvisorio nella città vecchia, per me provinciale, fu l'innamoramento per una Genova dove, costretto alfine dalle cadenze del lavoro, dismesso il diuturno pendolarismo sarei venuto ad abitare.

Ho vissuto per un anno in quel che fu il Castagna, dove Paoli diceva avesse scritto il Cielo in una Stanza, sopra la fabbrica di cioccolato da cui fino al mio monolocale in affitto salivano mistici effluvi, mentre qualcosa della vecchia destinazione d'uso era rimasto, sulle scale incontravo infatti condomine esotiche, un compendio a suo modo del mondo. Quindi mi sono trasferito in zona Vigne, prima in una scatola di fiammiferi un po' bohemienne col soffitto a travi alto due metri, poi finalmente in una casa quasi vera. Sono insomma un "immigrato" dal '96. Vivo quindi splendori e miserie, più miserie ormai, del centro storico più grande del Continente, un tesoro sepolto da un oblio a chiazze.

In tanti anni, conosciuto nel lavoro da cronista anche il resto di questa città lunga e stretta, non ho mai capito perché Genova abbia scelto la circolazione extracorporea. Ovvero perché si sia agevolato se non disposto lo svuotamento del suo cuore antico, a beneficio della frenetica costruzione di quelli che Guido Ceronetti, osservandoli dal finestrino del treno durante il suo "Viaggio in Italia" (1983), spietato definiva "termitai per disperati".

Non so quanta gente sia contenta di abitare alle Lavatrici o al Cep, al Giro del Vento o alla Diga che per fortuna non c'è più, piuttosto che alla Maddalena o a San Bernardo o anche a Pré. Qualcuno mi ha detto che in una certa stagione politica c'erano da far lavorare le ubique coop edilizie, ma codeste aziende avrebbero ben potuto cimentarsi col rinnovo dell'esistente, anziché edificare, lontano dagli insediamenti radicati, manicomiali penitenziari senza sbarre, privi di negozi e locali, insomma della vita sotto casa, disgraziati falansteri per disgraziati, moltiplicatori del disagio sociale che spesso lassù veniva sospinto.

Quando per il Cinquecentenario si decise di risvegliare dal letargo il Porto Antico, che dormiva abbandonato dietro le inferriate a ridosso della Sopraelevata, si è omesso di estendere l'operazione a quel che sta fra la Aldo Moro e l'asse Fontane Marose-Principe. Impressiona, di quel che brulica oltre Sottoripa, la natura maculare del tessuto sociale: pochi metri dividono una relativa normalità alle zone infrequentabili.

Ho studiato Giurisprudenza negli anni Ottanta. Nei bar di via Balbi non tenevano limoni, salita di Pietraminuta era un drogatoio a scalini, un tappeto di siringhe. Impazzava l'eroina, e con l'eroina l'Aids. Eppure quella zona era bellissima. Antonio Tabucchi insegnava in via Balbi e dal soggiorno genovese trasse Il filo dell'orizzonte, un mirabile e amorevole racconto lungo, decisamente a parte rispetto alla futura alluvione di giallismo vicolante, intriso di luogo-comunismo diffuso con la stampante tridimensionale. Ci sarebbe voluto un olandese, Ilija Leonard Pfeiffer, finito chissà come dalle nostre parti, a raccontare senza eccessiva approssimazione e con indubbio affetto quel mondo che si stende tra il grattacielo Piacentini e la Stazione Marittima.

Diradamento, conservazione. Purtroppo è un problema in parte urbanistico, in parte di ordine pubblico. Per molti anni sono stato un antiproibizionista, persuaso com'ero che la depenalizzazione delle droghe avrebbe devitalizzato la redditività occulta del commercio, per denudare inoltre il consumo di quell'alone di mistero che lo incentiva. A lungo ho creduto che ognuno potesse scegliere se e come ammazzarsi, con le scorciatoie organiche o chimiche o distillate disponibili, e se lo voleva fare affari suoi. Poi però succede che chi sniffa o s'impasticca poi di solito sale in macchina, gira per strada e diventa spesso un proiettile vagante, una mina antiuomo, uno che appunto può reagire in modo sproporzionato a qualsiasi contrattempo, un pugno per uno sguardo frainteso. Succede sempre più spesso, i resoconti dei fattacci di cronaca si risolvono spesso in deprimenti perizie tossicologiche o prove del palloncino, e quindi ho perso ogni convinzione sulla libertà di stonarsi.

Ma non è più solo il narcotraffico al dettaglio il problema della città vecchia. C'è anche l'idea che gli abitanti del resto della città considerino il nostro sestiere, ormai dico "nostro" anche da meteco, una specie di sregolato Paese dei Balocchi, un parco tematico dove ci si può stordire e, una volta storditi, lasciar tracce organiche e canore del proprio passaggio, non importa a quale ora del giorno o della notte. E l'infingardaggine più bieca, ogni tanto ricorrente anche in voci altolocate, è quella di mettere in alternativa lo spaccio al deboscio: preferite il silenzio dove nuotano i pusher, si intima ai residenti, o l'allegria che li scaccia? E' un falso dilemma, perché è proprio il deboscio che attira lo spaccio e viceversa, in un devastante rincorrersi. Chi davvero vive i vicoli lo sa.

Per oltre mezzo secolo si è lasciato il cuore della città del tutto abbandonato a se stesso. Unico caso in Italia dove il centro urbanistico è anche il polo della decomposizione. La ristrutturazione edilizia e quella sociale dovrebbero procedere simultanee. Ma servirebbero volontà politica e idee chiare. La grande scommessa - per ora venata di utopia - del supertreno, che avvicinerebbe assai Milano al mare, renderebbe la Genova antica la zona più appetibile d'Italia. Ma i tempi non sono immediati. Anzi. Si tratterebbe di procedere innanzitutto a una mappatura umana, un rigoroso censimento delle anime. Incrociando i dati dell'anagrafe con quelli della raccolta dei rifiuti, sono infatti migliaia i fantasmi soprannumerari: chi sono, dove e come vivono? Perché sono lì e si nascondono? Domande sospese nel vuoto, in un'Italia ancora pervasa dall'idea ingenua che ognuno possa andare dove vuole senza render conto ad alcuno, e dal corollario che tutto questo produca soltanto conseguenze buone.

Il risanamento avrà per forza tempi lunghi. Ma è il primo obbligo di un'amministrazione che voglia il bene dei suoi cittadini, fulcro imprescindibile del vero rilancio di Genova, città ignota nella sua impolverata meraviglia finanche a quasi tutti i suoi stessi abitanti. Interpellato su come riportare alla luce quel gioiello, proprio Tabucchi, in fondo a una splendida pagina scritta per il Corriere Mercantile, venticinque anni fa lanciava la provocazione intrisa di perfidia pisana: buttare giù tutto e costruirci un'altra bella autostrada. Era l'amara invettiva di un innamorato, uso a fingere che sia dolore il dolore che davvero sente.