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di Stefano Rissetto

Poi finirà come in quella vecchia canzone di Cocciante, dico Bella senz'anima: lui, non senza averci ragionato, parte bello carico per dirle "vattene", e poi a lei basta un'occhiata per azzerbinarlo, mangiandoselo vivo senza sputare nemmeno la lisca. Questo Mondiale, a me come a molti altri, dice poco, certo, come una festa a cui non sei invitato. Accantonerei però la questione speciosa dei diritti umani: nel corso del tempo, a partire dal 1930, spesso si è giocato in Paesi governati da incommendevoli regimi e nessuno o quasi disse niente. E poi se - per esempio - nel 1976 non fossimo andati a vincere la Davis in Cile, Pinochet sarebbe caduto prima? Oltretutto, quattro anni dopo, andammo a fare un'altra finale, in una Praga che allora sotto il profilo democratico non era granchè meglio di Santiago, ma nessuno allora obiettò sull'opportunità della trasferta. Corollario grottesco: i ripetuti furti dei giudici di linea, nel primo singolare Panatta-Smid, sfociarono nell'arresto sugli spalti della Sportovny Hala di un tifoso italiano, poi rilasciato: era il fratello di un senatore del PCI.

Chi è poi che stabilisce quando uno Stato non meriti riconoscimento e rispetto? Guardate il Consiglio diritti umani dell'Onu, e non mettetevi, se potete, a ridere: l'unica democrazia parlamentare esistente dal Mediterraneo al Pacifico, ovvero Israele, sovente viene messa sotto processo dai rappresentanti di truci regimi totalitari. A proposito di Israele, dopo il vile massacro degli atleti con la stella di Davide, primi ebrei uccisi in Germania dopo la Shoah, i Giochi di cinquant'anni fa a Monaco non erano stati sospesi, quando ai vertici del CIO c'erano personaggi a suo tempo compromessi col Reich. Perciò cambiamo discorso.

Lasciamo perdere anche il fatto che non ci sia l'Italia, purtroppo per la seconda volta consecutiva, cosa che infonde un senso di colpa (dei peggiori, ovvero per mancanza non commessa) in noi della metà degli anni Sessanta, nati in tempo per acciuffare Italia-Germania 4-3, Italia-Brasile 3-2 e il rigore di Grosso: se ami uno sport, non ti perdi comunque le feste comandate. Da anni per esempio nel ciclismo non tocchiamo biglia, sia nelle classiche - tolte la Sanremo di Nibali, il Fiandre di Bettiol e la Roubaix di Colbrelli - che nei grandi giri, l'ultimo Mondiale vinto è datato 2008. Eppure l'appassionato tifa Italia ma, anche sapendo che non ci sarà trippa per gatti azzurri, non si perde ogni corsa data in tv, fosse anche a notte fonda come la marcia trionfale di Evenepoel a Wollongong.

Nel calcio è ancora peggio. La mia squadra del cuore, il Doria, se la sta passando assai male, la Nazionale ci aveva illuso un anno fa, nell'Europeo itinerante rinviato di un anno, ma poi si è persa davanti alla Macedonia del Nord. Dopo la vittoria del 2006 abbiamo fatto solo brutte figure, eliminati in Sudafrica dalla Nuova Zelanda e in Brasile dalla Costarica. In più un Mondiale d'inverno, sempre per tornare al ciclismo, assomiglia un po' allo straniamento del 2020, con la Sanremo e il Lombardia ad agosto, la Liegi e il Fiandre in autunno, il Tour a settembre, il Giro a ottobre e il Mondiale spostato da Martigny a Imola, la Roubaix proprio cancellata, e tutto questo senza pubblico. Per non parlare delle Olimpiadi rinviate di un anno.

Certo, capisco che il Qatar sia una scelta surreale come sede, dovuta a chiari condizionamenti economici; era già capitato sei anni fa proprio al mio ciclismo, un podio di imperatori - Sagan, Cavendish, Boonen, tutti già iridati - dopo una corsa nel deserto e un arrivo deserto. Abbiamo voluto rinunciare al nucleare, specie noi italiani che l'avevamo inventato con Majorana, Fermi, Rasetti, Amaldi, Segré, Pontecorvo? Ovvio che adesso chi ha avuto la fortuna di nascere seduto su montagne sommerse di idrocarburi si compri l'Occidente pezzo dopo pezzo, calcio compreso.

Però gli ultimi che possono parlare di mondiali senza senso siamo noi italiani. Trentadue anni fa, la seconda e per ora ultima volta che ne ospitammo uno, fu una delle poche occasioni dopo Montreal 1976 di chiusura in perdita economica, e che perdita!, di un grande evento sportivo. Gli stadi, in gran parte quelli costruiti per il 1934, vennero stravolti e imbruttiti. Ne vennero costruiti ex novo quattro: uno, a Torino, lo hanno già demolito da un pezzo; quello di Bari si va disfacendo nell'incuria e di Genova sappiamo, anche se sempre ignoreremo (o forse vogliamo ignorare) perché solo qui non se ne sia tirato su uno del tutto nuovo, lasciando in piedi quello vecchio come appunto a Bari e Torino. Il più bello di tutti, ancor oggi, non venne usato: anziché nel magnifico "Rocco" di Trieste si giocò a Udine. Di là dal magniloquente trionfalismo degli organizzatori, la realtà era poi cose come un Colombia-Emirati giocato a Bologna in uno stadio vuoto a fronte di un "tutto esaurito" dichiarato. Lo dico perché c'ero, con un gruppo di amici avevamo scelto dadaisticamente di andare a vedere la partita che si prometteva la più stravagante della fase a gironi. Le opere pubbliche di contorno furono quasi tutte in linea col grottesco travestimento da metropolitana della vecchia galleria del tramway di Certosa: gli inglesi arrivavano da Cagliari con la nave, vedevano la "M" rossa e pensavano "che bello, ora giriamo la città", salivano e si trovavano a Brin, fine corsa. A Roma il monumento ai soldi pubblici cacciati dalla finestra è il capannone costruito accanto alla stazione Ostiense per il collegamento con Fiumicino, poi rapidamente dirottato - come aveva senso - a Termini. Per non parlare della finale per il terzo posto giocata a Bari, casualmente la città di Matarrese. Giustamente l'Italia "geopolitica" gettò via il titolo più facile da vincere, per la paura del povero Vicini di sembrare filodoriano se putacaso avesse mai fatto giocare Vierchowod: Maradona, sollevato dell'assenza dell'"Uomo Verde" tra gli avversari in semifinale, non ci voleva credere. E la finale fu la più brutta di sempre, guarnita dall'oscenità dei fischi all'inno argentino, ché poi gli argentini sono quasi tutti italiani.

Quindi non asfissiamoci con la politica e con i temi alti, almeno per questo mese. Godiamoci, da spettatori estranei in sommessa regressione infantile, la quadriennale rassegna somma della disciplina più amata al mondo, anche se nemmeno i suoi adepti sanno spiegare perché lo sia. Che lo sport sia stato e sia usato dai totalitarismi è sempre successo e nulla ha potuto e potrà impedirlo. Capisco che viviamo un tempo in cui taluni pensano che vandalizzare le opere d'arte attiri altri seguaci alla causa degli imbrattatori, però lo iato fra ideale e reale non è colmabile e il buon Hegel che ci aveva provato ha fatto, nei suoi più spericolati e incolti esegeti, soltanto disastri.
Già è triste novembre, figuriamoci mettendoci dentro un Mondiale senza l'Italia, che stando agli atti non se lo sarebbe meritato, ma da quel che si è visto finora ci potevamo stare anche noi.

Personalmente farò come sempre. Mancando l'Italia, tralascerò l'oziosa fase a gironi, 48 partite quasi sempre poco significative, che servono soltanto a ridurre da 32 a 16 le partecipanti. Invece le 15 partite a eliminazione diretta, lavoro permettendo, cercherò di vedermele tutte. Ne salterà fuori sempre qualcosa di memorabile, specie andando ai rigori, come il "cucchiaio" del "loco" Abreu contro il Ghana nei quarti di finale del 2010 o quattro anni dopo la sostituzione al 120' del portiere olandese, Krul per Cillessen, contro la Costarica. Poi per chi non conosce il calcio tutto questo sarà appunto arabo, ma pazienza.

Insomma alla fine condivido l'idea che giocare i mondiali di calcio in Qatar sia una cosa assurda, che si disputino senza l'Italia sia inoltre mortificante, però alla fine quando si concluderanno con la Coppa sollevata dalla Francia (come temo) e non da Argentina o Belgio (come vorrei), mi verrà un po' di malinconia come alla fine di una festa.
E non solo perché è la prima volta che di un Mondiale, come di tutto il resto, non posso parlarne con mio padre. Perché allora? Beh, avete presente la battuta finale di Io e Annie? Woody Allen, alias Alvy Singer, dice: "Sapete quella vecchia barzelletta dove uno va dallo psichiatra e gli dice: “Mio fratello è pazzo: crede di essere una gallina.”. E il dottore risponde: “Perché non lo interna?”. E l'uomo: “E poi a me le uova chi me le fa?”. Ecco, è un po' quel che penso io - conclude Allen - dei rapporti uomo-donna. Sono irrazionali, pazzi, assurdi, ma continuano perché quasi tutti abbiamo bisogno di uova".