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di Mario Paternostro
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L’intuizione è di Renzo Piano. Perché tutte le archistar dell’epoca, di fronte al compito di disegnare una sede espositiva, da esposizione universale, la spostavano fuori città. Invece  no. Piano la sogna in centro, nel centro del centro di Genova, cioè nel porto vecchio, vietato ai genovesi perché chiuso da una cancellata di ferro alta e minacciosa che corre sotto la sopraelevata e impedisce qualunque passaggio. I moli? Li immaginiamo oltre questa barriera metallica. Riusciamo a vederlo il porto vecchio in quegli anni  da Spianata Castelletto o dalla Terrazza del Grattacielo dove ora è Primocanale. Invece Piano vuole aprire tutto e mettere le banchine a disposizione dei cittadini. Geniale.

Ma bisogna ringraziare anche Paolo Emilio Taviani, ex potente Dc, più volte ministro, ma soprattutto massimo studioso di Cristoforo Colombo. Grazie alla pervicacia di Taviani con le Colombiane del 1992 arriveranno a Genova un migliaio di miliardi e per gran parte saranno spesi proprio per rifare il porto vecchio. Fino al 1992 Genova aveva dovuto sopportare due trasformazioni urbanistiche, quella abbastanza devastante di Piccapietra, con la cancellazione di una collina spianata dalle ruspe per far posto a edifici di cemento e vetro e quella di via Madre di Dio, una ferita incurabile per i vecchi genovesi che vivevano la Cheullia nelle botteghe, nelle trattorie, nelle case di qualche prostituta.

Ma il vero cambiamento della città avviene tra il 1992 e il 2002.

E’ così - rispondeva Piano in un’intervista di allora -, quando cominciò la nostra lunga chiacchierata che continuerà con mia grande gioia, stasera alle 18 a Porta Siberia - Utilizzando queste occasioni Genova ha vissuto un’operazione urbanistica pubblica da circa mille miliardi. Non ce ne sono altre in Italia e sono poche anche quelle europee. Per cercare operazioni così imponenti bisogna andare in qualche capitale europea, a Berlino con Potsdamerplatz, affare da quattromila miliardi”. Piano osservava che tutto era fatto dai genovesi, zitti zitti e con soldi romani.

Tutti i sindaci che si sono avvicendati da allora sono stati bravi, concreti, pragmatici e poco ideologici. Da Fulvio Cerofolini ne ho passati sei. Fulvio ha voluto l’esposizione nel porto capendo benissimo che facendola qui si agganciava al centro storico e aiutava il suo recupero. Poi Campart, Merlo, Burlando, Sansa e Beppe Pericu. Nessuno di loro ha mai avuto un atteggiamento negativo. Renato Picco che era l’anima della società del Porto antico fece un ottimo lavoro. Cocciuto, da artigiano costruì tutto quello che oggi fa di questa operazione l’unico vero pezzo nuovo della città di Genova. Oggi tocca “governare” il Porto a Mauro Ferrando. Una nuova sfida.

Operazione allora sottovalutata dai genovesi?

“Diciamolo sottovoce – mi raccontò Piano – ma siamone fieri. Genova è una città di pietre e di acqua. Paul Valery la chiamava “cava d’ardesia” con una felice espressione. E’ una città protettiva e materna là e qui nel porto di avventura. Fino al 1992 Genova era separata dal mare, le era vietato affacciarsi sull’acqua, era separata dal mare e non stiamo parlando di secoli fa, ma dell’altro ieri. Ora ci sembra tutto normale, ma non era così. Il mare è tornato in città e con il G8 e il completamento della via del Mare con la realizzazione dell’isola delle chiatte, la riacquisizione del mare da parte della città è totale. Dopo la sbornia negativa del G8 i genovesi se ne approprieranno completamente e l’isola delle chiatte diventerà la vera piazza sul mare”.

Così raccontava Piano. Aveva ragione e possiamo dirlo dopo trent’anni di uso della nuova grande piazza urbana. Una città che doveva essere riconquistata dai suoi abitanti. Una piazza galleggiante con le panchine piena di coppie di fidanzati e di bambini. “Ora dall’isola c’è la visione della città dal mare e questa era un’immagine che esisteva soltanto per i naviganti”. Piano era entusiasta. Lo è anche oggi? Gli lo chiederò. Ma se sta inventando il Waterfront di Levante, un’altra piazza attraversata da canali d’acqua, penso che la risposta sarà positiva. “Questo è un luogo amato dai genovesi che sono sempre critici, lucidi e brontoloni.”.

Lo storico Fernand Braudel, attento lettore di Genova, ha scritto che i genovesi erano i più terribili del Mediterraneo, ma anche i più intelligenti. La genovesità si manifesta nella città che è arcigna e affettuosa o materna. C’è sempre questa doppia dimensione. Arcigna o infelice come invece sosteneva, sorprendendomi, lo scrittore e storico serbo-croato Predrag Matvejevic durante una indimenticabile passeggiata a Sottoripa con Silvio Ferrari.

Questa piazza che è davvero un centro di Genova, magari con De Ferrari, è la sintesi della filosofia di Renzo. L’acqua che deve girarci intorno e che si muove in continuazione. La pietra, l’ardesia, la solidità, le radici di Genova. Il vento che nei progetti di Piano è una componente essenziale. Tutto questo in quella striscia di terra che l’architetto chiama “una striscia di confine. Di qua il mare, di là la terra”. Poi la sobrietà tutta genovese, dove nulla appare, ma tutto E’. Qualche cosa che come Renzo ha fatto col ponte di San Giorgio “chiede il permesso”. Allora con il forte appoggio di Cerofolini che non voleva sprecare nulla, “nu se straggia niente”. Si tiene ogni cosa. Ecco che la piazza dell’esposizione colombiana alla fine dei festeggiamenti non muore, non arrugginisce come i padiglioni di tante esposizioni che passano dalla vita alla morte. Qui a Genova , dentro il porto, tutto si utilizza anche dopo. La vita continua con  teatri, negozi, ristoranti, uffici, giovani che lavorano, anziani che passeggiando senza auto e bambini. Lo hanno raccontato bene e con emozione due giovani architetti Antonio Lavarello e Emanuele Piccardo in una bella mostra sul ‘92.

Oggi si ricomincia. Ci sono ancora “rammendi” da eseguire. Tra Porto Antico e Waterfront di Levante dove ci saranno abitazioni e Palasport, startup di ragazzi ingegnosi e padiglioni. E acqua, tanta acqua. Ma anche un immenso parco di diciotto ettari, secondo solo ai parchi di Nervi, collegato con corso Italia e dall’altra alla ricerca di un collegamento con la Darsena e l’Acquario. E, chissà, anche oltre, magari verso la Lanterna?

Caro Renzo, te lo chiederò stasera.