La tifoseria in marcia ha fatto di tutto per indurci a restare a casa, o a girare a largo, "giornalista evita di avvicinarti. Uomo avvisato..." hanno scritto presentando la manifestazione.
E così mentre i tifosi in coro urlano slogan contro i giornalisti e contro la testata per cui lavoro, fra bengala e fumogeni che esplodono a qualche metro, avverto, anche grazie alla barriera protettiva della polizia, come poche volte mi è capitato negli ultimi anni l'orgoglio di essere un cronista.
Sono le 18, è già buio, più buio di quanto immaginassi, io e il cameraman Francesco siamo già in prossimità della gradinata luogo d'incontro dei tifosi.
Posteggiata l'auto, ci guardiamo attorno circospetti: decidiamo di fare prima un giro di perlustrazione, poi torniamo attrezzati, lui con la telecamera, io con il microfono. Si va, ma sempre dove ci sono agenti in divisa e lampeggianti accesi.
Isolarsi sarebbe pericoloso. Non siamo tranquilli, sappiamo che ogni piccolo errore di percorso può essere rischioso. Gli agenti però ci rassicurano, ce ne sono della Digos, del reparto mobile e pure delle volanti, in divisa e in borghese.
Io e Francesco subito ci sentiamo soli, troppo soli: intorno non vediamo nessun altro collega. Cordoni di poliziotti, qualche vigile per il traffico, ispettori Amt per disciplinare il transito dei bus, ma di cronisti niente.
E' il momento più duro mentre il buio è sempre più fitto e la marea di tifosi, sagome, si infoltisce dietro il furgone con i capipopolo con il megafono dritti in piedi sul camion che aprirà la marcia.
Si compattano davanti ai vecchi botteghini di via del Piano. Noi iniziamo a pensare che alla fine le minacce hanno sortito lo scopo di spaventare la categoria. Vabbè, ma ormai noi ci siamo e andiamo avanti.
Ma neppure il tempo di scorgere tifosi con un bebè nel passeggino, nonni con nipoti, donne e ragazzini che cantano i vecchi slogan che sembra di essere allo stadio ai tempi dello Scudetto, insomma, mentre ci accorgiamo che a manifestare ci sono anche tanti tifosi che dei giornalisti se ne infischiano consapevoli che il vero nemico è il possibile ritorno del presidente osteggiato da tutti, ecco la sorpresa che ti apre il cuore: al nostro fianco un giovane cronista in diretta su Fb, poi un giornalista e un operatore di mamma Rai con la telecamera già accesa, e poi il fotografo del Secolo XIX, quello de La Repubblica che poco distante mi telefona per chiedermi dove raggiungerci. Altri colleghi di siti e sparsi qui e là. Alla fine siamo una decina: addossati uno all'altro. Come a fare gruppo, e a guardarci le spalle, attorno solo poliziotti, la nostra polizza.
Ora il corteo può partire e tutto fila liscio, nonostante gli slogan, "giornalisti terroristi", nonostante qualche bengala, i petardi, le bombe carta.
L'impressione è che con il passare dei minuti pure i manifestanti più duri chiudono un occhio e capiscano che siamo attori necessari alla loro sacrosanta rappresentazione, non orpelli o neppure - almeno per una sera - nemici. Ma forse la mia è solo un'illusione, una speranza.
Il corteo intanto sfila da corso Galliera, spunta sul ponte di Sant'Agata, va in via Canevari e arriva sino al capolinea di Corte Lambruschini: lì i manifestanti mettono in atto un suggestivo spettacolo per urlare la loro rabbia verso i nemici della società con una parata di striscioni avvolta dai fumogeni. Poi la marea nera della protesta invade gli antri di Corte Lambruschini, come ad occupare simbolicamente la sede.
Ora la polizia è troppo impegnata a presidiare l'edificio e "dimentica" i giornalisti, che a quel punto si defilano, per non rimanere isolati fra i troppi tifosi.
E' allora che un muro di manifestanti ci scorge indifesi all'angolo con piazza della Vittoria e ci punta minaccioso proprio mentre dallo studio mi chiedono la linea.
E' il momento più delicato: se superano quei pochi poliziotti che ancora ci separano da loro siamo fritti, penso, mentre dallo studio il direttore Matteo Cantile mi chiede in diretta che sta succedendo.
Io parlo, cerco di minimizzare, ma intanto corro guardandomi intorno, cerco di capire dove scappare.
Il commissario capo Maurizio Apicella, uno sveglio e pure una vecchia conoscenza, alla guida di un contingente del reparto mobile, intuisce la situazione e ordina agli agenti di schierarsi a nostra difesa: i poliziotti abbassano visiera e scudi, ma sono pochi e di fronte hanno un muro di persone. Un muro che però stasera ha un solo grande nemico: l'ex presidente. Così davanti a quegli agenti che avrebbero potuto spazzare, come per miracolo, i tifosi si fermano e tornano indietro. Come il mare davanti a Mosè. E' la nostra salvezza e il mio pensiero va a Stefano Origone, il collega sprangato per errore dagli stessi agenti del Reparto Mobile, gli stessi robcop che ora vorrei quasi abbracciare e ringraziare per averci difeso.
Finiti i rischi, ecco il "vela", il rompete le righe ai poliziotti, e finisce pure la diretta, mentre da Corte Lambruschini arrivano lontane le urla e i battiti delle mani dei manifestanti, ma ora - da distante - più che una protesta sembra quasi una festa.
Per ultimo un retroscena trapelato solo giorni dopo la manifestazione, la conferma di una sorta di tolleranza non ufficiale dei manifestanti nei confronti dei giornalisti durante la manifestazione: quando i leader che arringavano la tifoseria nel cortile fra le torri di Corte Lambruschini hanno appreso del principio d'assalto ai cronisti un paio di loro sono corsi preoccupati incontro agli altri capi che fronteggiavano i giornalisti per bloccarli e portarli via. Ed è stato solo allora che il commissario capo Apicella, rincuorato, via radio ha diramato al reparto mobile la fine dell'ostilità.