GENOVA - È una scena per me indimenticabile. Renzo Piano stava presentando il progetto del suo waterfront, sotto il tendone del Porto Antico. Con una lunga canna indicava i punti su una grande mappa, dove era disegnato il Waterfront, il primo, quello concepito nel 2006. Beppe Pericu sorrideva di fianco, anche per lui quel progetto universale era la svolta che poteva far decollare la città.
Piano sembrava Mosè che indicava la strada non in mezzo al mare, ma in mezzo al porto, da Levante a Ponente, dalla Fiera all'ultima propaggine di Voltri, oltre il porto satellite.
Mi ero messo di fianco, da cronista oramai stagionato e un po' esperto, per osservare sia il Maestro che spiegava, ma anche il pubblico che seguiva, dove c'erano tutti schierati, con le cosidette autorità in prima fila, gli imprenditori, i terminalisti, gli industriali, i riparatori navali, i leader di tutte le associazioni, i politici, gli amministratori. Insomma il plenum di una città che valutava in un silenzio totale la grande scommessa, l'ultima mossa di chi aveva cambiato già tutto nel 1992 e ora proponeva il salto finale.
Che reazioni scattavano davanti a quella rivoluzione che spostava tutto, ridisegnava gli assetti del porto e della città sul porto, prevedeva perfino di modificare la corrente intorno alle banchine? Scorgevo prevalentemente lo stupore per la grandezza del progetto e poi quasi lo spavento di un capovolgimento che spostava l'ordine precostituito delle cose.
Guardando quelle facce, quei volti, alcuni dei quali mi ricordavano i grandi dipinti delle grandi Mostre a Palazzo Ducale de “Los siglo de los genoveses”, nasi adunchi, espressioni imperturbabili, sguardi vitrei, incominciavo a capire che il partito del no stava vincendo. Da subito.
Quel disegno era troppo. Spostava le Riparazioni navali a Ponente, metteva in discussione equilibri, concessioni, inventava nuove soluzioni, come il porto dei pescherecci, portava al largo l'aeroporto, apriva spazi alle banchine “storiche” di Sampierdarena.
Troppi cambiamenti, troppe differenze. Troppo.
Piano-Mosè continuava a spiegare con quel suo tono di affabulazione i dettagli del grande disegno, muoveva la lunga canna, da Ponente a Levante sulla cartina e il silenzio lo seguiva. Non so perchè, guardando quella folla ho capito subito che non se ne sarebbe fatto nulla, che la grande speranza si inabissava lì, in mezzo al Porto Antico di Piano, tra il Bigo e l'Acquario.
Il partito del no, che da anni “marcavo” nel mio ruolo di giornalista, che aveva detto no alla Bretella e apriva grandi dibattiti sulla Gronda, che se le avessero fatte non crollava il Morandi, stava armando i suoi silenzi tra i politici con i loro calcoli e gli imprenditori con i loro interessi.
Vincevano i nasi adunchi e le e le barbe finte, pronti a complimentarsi con l'architetto, ma poi, girato l'angolo a destra, si facevano tra di loro smorfie significative.
Lo sappiamo come è finita. Quel disegno, che faceva sognare la svolta, è finito in una bella bacheca del Museo del Mare, come una reliquia di un santo protettore al santuario della Guardia.
Ci sono voluti anni e nuove amministrazioni perchè il waterfront in versione mini, prima di Blue Print, ora di una operazione ridotta anche se molto strategica sopratutto per il turismo e la nautica ripartisse. E istigasse i nuovi sbarramenti dei soliti noti che dicono no.
Nel frattempo molte fatti si sono consumati. Il presidente del porto di allora, Giovanni Novi, è finito nel 2008 agli arresti, coinvolto in un clamoroso processo, che partiva proprio dalle concessioni portuali e dalla loro correzione.
Uno scandalo che doveva scoperchiare la città finito, invece, in una totale assoluzione davanti alla Corte di Cassazione: tutti i fatti non sussistono. Novi era l'unico a sorridere quel giorno insieme a Beppe Pericu davanti a Piano -Mosè, che spiegava.