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Per la seconda volta la festa di fine anno si celebra in un clima spaesante
2 minuti e 51 secondi di lettura
di Stefano Rissetto

Natale è la festa dei bambini ed è il rimpianto di chi non ha trovato posto in nessun posto smarrendosi in se stesso. Per la seconda volta è un presepe di guerra e chissà se sarà l'ultima, le sirene non sono gli allarmi aerei ma le ambulanze. Cerchiamo la Cometa in un cielo rannuvolato, aspettiamo i Magi in cammino da Oriente che ci riportino le serate in pizzeria, i film visti al cinema, i concerti in piazza, gli stadi, i sorrisi oggi velati da un sipario di garza sterile, insomma che ci riportino la vita. Gli abbracci, i litigi, il volo scriteriato dei fogli dal calendario.

Sotto l'albero, in pieno Avvento, nella clandestinità di una sala buia e deserta, abbiamo trovato immedesimazione nella storia di un ragazzo solitario, anaffettivo, curioso e diffidente delle donne, ostaggio di una dannata intelligenza celibe, che intuisce Natale nell'apparizione di Maradona in quella città di fantasmi, che da sempre fa l'amore con la morte. Soltanto chi ha avuto nel calcio l'unica scorciatoia al mondo degli altri può riconoscersi nella storia di chi sia stato graziato dal buio per effetto della "mano di Dio". In quella pellicola c'è la malinconia e il mistero del calcio, ancor più profonda in questo 2021 che a Genova per molti, insomma quelli della mia parte, ha trasformato o forse sfigurato purtroppo anche quel che credevamo fosse il pallone, o meglio la nostra giovinezza a veder correre sull'erba una sfera di cuoio piena di niente, accanto a quelli che spesso sarebbero diventati i compagni di viaggio del resto del tempo.

Natale non cade mica sempre a Natale. Quando arriva il 25 dicembre, ci si guarda attorno e si calcola il peso delle assenze. Specie chi non è più figlio senza essere padre. Il ragazzo di Sorrentino giunge anzitempo alla cognizione del dolore, quanto deve essere costato al regista inscenare su un set la morte invisibile dei genitori, soffocati da un nemico invisibile come il morbo che ci attanaglia il presente, esorcizzandola con il terrifico espediente grottesco - Lynch più che Fellini - di una belva baluginante dietro un vetro. Questo strano Natale sotto il vulcano corre tra l'inizio e la fine di un racconto dei racconti, in mezzo c'è la vita che è scadente e per questo sia benedetta l'arte: persone brutte e grette e banali, come quasi tutte quelle vere, osservate con spietato realismo per interpolare in commedia l'allusione e l'arrivo del Bambino.

Ma siamo a Napoli e il Bambino è il Monaciello, una delle presenze occulte di una tradizione intraducibile. Viene a sconvolgere il destino come accadde a Betlemme. Ed è un Monaciello non dispettoso ma benevolo, col volto di chi sotto le stelle di mezzogiorno del Messico aveva spacciato un borseggio per intervento divino, un bambino dal destino fiammante e infelice incontrato in viaggio nella desolazione di una stazione abbandonata, nel tempo in cui le stazioni hanno preso il posto delle cattedrali e vi si officia la liturgia dei ricongiungimenti e degli addii.

La Messa di tutte le mezzanotti è quella di Buzzati e di Montale, nella basilica di vetro e ferro della Centrale. Ai primi del Novecento dalle Puglie ci era arrivato dal Sud il padre di Vincenzo Jannacci, "medico e artista" come ha voluto titolarsi al Famedio, Chaplin milanese che prima di entrare nel buio avrebbe così salutato un Natale non ancora di guerra come questo: Se il Nazareno tornasse, ci prenderebbe a sberle tutti quanti. Ce lo meritiamo, eccome, però avremmo così tanto bisogno di una sua carezza.