Per colpa di un bisnonno, che si era innamorato di una ragazza del posto, durante la prima sosta del viaggio da Arzeno (alta Val Graveglia, dove i due cognomi più diffusi sono Garibaldi e il mio) al piroscafo, fermandosi a San Bartolomeo al contrario dei suoi fratelli, ho più parenti in Argentina ormai che qui. Quindi può darsi che il mio parere sia condizionato dall’affetto. Però ho salutato la vittoria albiceleste con infinita gioia, in un momento in cui il calcio mi fa affacciare soltanto su un orizzonte di nuvole su nuvole, quasi tutte nere.
Non è stato solo il successo di Leo Messi immenso campione all’ultimo ballo, inavvicinabile comunque a Maradona, ma che ha evitato la sorte di Cruijff, imperatore senza corona, e diciamo pure anche Mancini, scandalosamente mai un minuto in campo in un Mondiale. E’ stata forse anche, sia pure con molte ombre cupe in puntuale contrappunto, una momentanea rivincita del politicamente scorretto, verrebbe da dire finalmente!, dopo decenni di delirio suicidiario unilaterale riassunto nel lemma “buonismo” che il professor Ratzinger più coltamente aveva definito “relativismo”, una malattia autoimmune che sta erodendo quel che resta dell’Occidente.
Un morbo inoculato, parrebbe, anche da agenti patogeni filigranati oppure metallici, come va dimostrando il cosiddetto “Qatargate”, divampato in curiosa coincidenza man mano che ci si avvicinava alla finalissima del Mondiale. Se è presto per trarre conclusioni giudiziarie, ci si può infatti già fare fin d’ora un’idea del perché le istituzioni europee, e non da oggi, sembrino preoccuparsi soprattutto di seppellire sotto calce viva tutto quel che distingue, o forse distingueva, il continente di competenza dal resto del pianeta. Una resa duplice, sia valoriale che economica, nel primo caso decisa da una lotta con lo specchio partita dall’espunzione costituzionale delle radici giudaico-cristiane e sfociato, goccia dopo goccia, in abomini unilaterali - esempio assai attuale - come i presepi e i canti natalizi cancellati dalle scuole con la lugubre formula “per non offendere la sensibilità” eccetera, mentre se ti presenti a Doha vestito buffamente da crociato, genialata dei tifosi inglesi, quando ti va bene ti fanno togliere il costume; nel secondo dalla sbornia pseudoambientalista imperversata negli ultimi quarant'anni, chissà quanto spontanea vien da pensare, che ha azzerato la scienza nucleare europea, anzi italiana, e ha avuto il solo effetto di renderci irreversibilmente dipendenti, o meglio servi, dei padroni di gas e petrolio. Adesso compaiono i primi pentiti, a partire dai Verdi finlandesi, perfino la ripetente svedese ha ammesso la natura ecologica dell'energia nucleare, ma ormai è tardi.
Il cammino dell’Argentina è stato accompagnato da petulanti banalità, a partire dai media che avevano sollevato il caso dei casi, ovvero l’assenza nella squadra di giocatori di colore, come se a Scaloni un Mbappé nato a Buenos Aires non avrebbe fatto comodo. La risposta, alludendo alle “quote etniche e categoria” con cui vengono ormai sceneggiati anche i cartoni animati per bambini dalla più grande società del ramo, è stata impagabile: “Perché siamo un Paese e non la Disney”.
Avendo sempre avuto un inesorabile voto liminare in condotta, tendo a stare dalla parte di Franti e non di Garrone. O forse da quella di Totò Merùmeni: “in verità derido l’inetto che si dice / buono, perché non ha l’ugne abbastanza forti”. E allora parliamo pure di quel che in questo Mondiale ha dato scandalo e di quel che invece è passato in cavalleria.
L’epilogo del quarto di finale Argentina-Olanda è stato, come dice il mio carissimo amico e vecchio collega al “Mercantile” Edo Bozano, “calcio vero”. Un concentrato di truculente nefandezze da saloon, o meglio da barrio, botte da orbi e slealtà concatenate a non finire, il momento più bello del Mondiale, altro che la finale. Però alla gogna ci sono finiti solo gli argentini, per i gestacci ai rivali dopo il rigore decisivo di Lautaro Martinez. E meno male che c’era la mosca tse-tse, ovvero la telecamera sospesa sul campo, a riprendere tutta ma proprio tutta la scena, altrimenti non si sarebbero capite le beffe e i vaff e gli hijodep degli albiceleste. La scena è sul web, andatevela a vedere tutta, poi ne parliamo. Ve la riassumo: appena Lautaro parte per andare a calciare, viene accerchiato da quattro olandesi che gliene dicono più che al porco, uno lo spintona, poi il resto lo fa il portiere Noppert che prende il pallone, va incontro all’argentino faccia contro faccia, accennando una testata, invitandolo quasi a venire alle mani come fa chi è a corto di argomenti, mentre l’arbitro non vede non sente non parla. E poi quando Lautaro alfine segna, voi cosa avreste fatto? Io avrei fatto come Nicolas Otamendi, andato a far le boccacce con le mani aperte sulle orecchie all’olandese che più di tutti aveva provocato Lautaro. Quindi hasta la vista companero Otamendi. E non recitiamo la solita sussiegosa compieta “sono professionisti eccetera”, prima di tutto sono uomini. E bisogna aver camminato nelle scarpe di qualcuno per aver la presunzione di giudicarlo, anche nelle scarpe bullonate.
E veniamo alla finale, misticamente officiata da Messi e Mbappé, sei gol in due, ma stravinta dal Dibu Martinez. Prima con l’anamorfica parata al centoventesimo su Kolo Muani, poi sul rigore di Coman, quindi col balletto alla Brutos subito dopo l’errore di Tchouaméni, infine con l’uso improprio del trofeo appena vinto per il miglior portiere. Quest’ultima bravata - in astratto risparmiabile, certo - può essere condannata soltanto da chi sia stato nelle scarpe del Dibu per i 146’ della partita. Gli altri lascino perdere.
Ben altre sono state le cose sgradevoli di questo Mondiale, a partire dalla sede scelta attraverso una procedura che va rivelandosi poco trasparente. Come sia arrivata la Coppa Fifa fin laggiù lo ha dimostrato, con un gesto plastico molto più intollerabile di ogni cippirimerlo dei calciatori stremati dalle contese, la vestizione forzosa del vincitore imposta dal padrone del luna park, nonché suo datore di lavoro al Paris Saint Germain, dal cui logo da tempo è casualmente sparito il riferimento a San Germano. Una vestizione tra sorrisi e salamelecchi, ma apparsa come un bieco atto di prepotenza da una parte e di sottomissione dall’altra.
Quel gesto ha rispecchiato la natura propagandistica, e di una propaganda politico-religiosa, di tutta la manifestazione. Una propaganda che ha avuto occasionale strumento nella nazionale del Marocco, forte di suo e prevedibilmente sospinta da uno stucchevole luogocomunismo che nell’intimo, sotto lo zucchero a velo della retorica, tradisce un sordo odio di molti occidentali per l’Occidente stesso; un rancoroso luogocomunismo intercambiabile, che sarebbe infatti stato applicato in modo indifferente a qualunque altra nazionale africana e/o riferibile alla religione del Paese ospitante.
Difatti le autorità del calcio non hanno battuto ciglio di fronte alla propaganda politico-religiosa che ha scandito, nemmeno troppo subliminalmente, tutte le tappe del percorso marocchino. E passi pure il proselitismo social tentato, dopo la vittoria sulla Spagna, da Zakaria Aboukhal e da Abdelhamid Sabiri, “Convertiti, passa dalla parte dei buoni, abbraccia la pace!”. Boh, ce li vedete lo scorso anno Donnarumma e Bonucci dopo la finale invocare la conversione al cattolicesimo dei tifosi protestanti inglesi? Ma c’è dell’altro: le autorità Fifa nulla hanno eccepito di fronte alla sistematica esibizione, da parte dei giocatori marocchini dopo le vittorie in ottavi e quarti, di una bandiera che non era la loro, quella della Palestina.
Ho purtroppo buona memoria e ricordo bene che cosa accadde al Mondiale del 2006, quando John Pantsil, giocatore del Ghana che militava nell’Hapoel Tel Aviv, alla fine della partita vittoriosa sulla Cekia sventolò una piccola bandiera con la Stella di Davide, in segno di riconoscenza per il Paese che lo aveva adottato e di saluto verso alcuni tifosi israeliani presento allo stadio. Si giocava a Colonia, in Germania, dettaglio che può non essere indifferente. Beh, Pantsil venne deplorato prima dalla sua stessa federcalcio (“Ovviamente non è consapevole delle implicazioni di ciò che ha fatto” disse il portavoce ghanese Randy Abbey, “ci scusiamo con chiunque si sia sentito offeso, con la promessa che non accadrà di nuovo”), poi dal tribunale dei media internazionali. E da allora non si sono viste più bandiere di Israele, a meno che non giocasse quella Nazionale, negli stadi governati dalla FIFA. Una FIFA che, dopo quanto visto in Qatar, sembra sempre più assomigliare nell’anima, un’anima col codice a barre, al significato in italiano del suo nome.