E' stato un Natale di guerra, il primo nella vita di quasi tutti noi, una guerra vicina, a due ore di aereo da qui, eppure ormai sfumata nel chiacchiericcio della svenevole quotidianità, scivolata via dalle cure di chi pretende di sentirsene estraneo. E' stato un Natale arrivato alla fine di un anno di fatiche, come tutti gli anni, e come tutti di preoccupazione, e con qualche tristezza. Chissà perché i momenti di felicità svaniscono subito, gli affanni invece restano per sempre.
E' il giorno in cui ci si scambiano i doni e non sapevo che regalo fare alla persona che mi illudo di conoscere meno peggio. Così ho preso un treno e sono andato al mio paese, a Sestri. Il 25 dicembre è l'unico giorno dell'anno in cui nelle ore di luce le strade si svuotano, perché ci si ritrova a tavola a cominciare la scalata verso il pandolce; e la metafora è adatta a quel che è stato il mio Natale. Un Natale in bici.
Il cielo era basso e pesante nelle nuvole di fuliggine, il freddo era freddo anche se quelli normali dicono di no, ma ho preso lo stesso la mia Pina, nomignolo dall'abbreviazione del marchio di fabbrica, e dalla tarda mattinata mi sono messo a pedalare senza una meta precisa, solo per sentire ora il fruscio della catena, ora il frinire degli ingranaggi della ruota libera, ora il sibilo di serpe dei freni, col solo vincolo di non allontanarmi troppo per non incappare in un acquazzone che sarebbe rimasto lì appeso fino a sera, quindi inventandomi lì per lì un circuito da ripetere fin che ci fossero luce e forze, da un estremo all'altro del posto dove sono nato e stato bambino e giovane adulto, insomma tra Precanti e le Gallerie.
Non c'era davvero nessuno in giro, sembrava un incantesimo, una tregua dai patemi, soltanto a ferragosto o per una finale dell'Italia può accadere oppure appunto il 25 dicembre, tutti stavano nelle loro case, al caldo, chissà se qualcuno dalla finestra vedeva quell'omino sottile vestito di giallo in bici, esposto agli aghi di una pioggia più allusa che vera, che ero io. Era davvero Natale, il paese era fermo, sparito ogni rumore, solo ogni tanto passava un treno sulla ferrovia parallela all'Aurelia, guardavo i volti corniciati dai finestrini e loro guardavano me, gente in viaggio anche adesso e anche oggi, io come loro. Dove andavano? E perché proprio oggi? E dove andiamo tutti? E perché? Quando il bambino era bambino, era il tempo delle domande. E davanti a certe domande si resta bambini.
I treni e la bici sono stati gli assi cartesiani della mia giovinezza e forse diciamo della vita. Nascono più o meno coevi, in quell'Ottocento che fu il secolo delle illusioni nel progresso, come se andare avanti fosse sempre andare meglio. La bici è un oggetto meccanico giovane, ha meno di duecento anni, ma per certi versi è già obsoleta, oppure esasperata dal futurismo della tecnologia, quando da piccolo trovavo il carbone (dolce, ma la valutazione paterna era chiara) nella calza della Befana mai avrei pensato che un giorno le biciclette sarebbero state costruite in carbonio, che poi è l'elemento chimico alla base della nostra esistenza terrena. Se provo a sollevare la mia ultraquarantenne Bianchi di acciaio, mi chiedo come potessi portarla da sedicenne in cima ai valichi dell'Appennino ligure-emiliano. Le versioni a motore sembrano bici ma vanno già oltre, tradiscono nell'intimo il patto simbiotico tra l'essere umano e la meccanica, un patto che sconfina nel connaturarsi. Ci sono uomini che in quanto tali non sono gran che, li metti su una bici e diventano se stessi, come se soltanto lì sopra trovassero un senso. E non solo i campioni. Quel che diceva Tommaso da Kempis nell'"Imitazione di Cristo" a proposito dei libri (In omnibus requiem quaesivi, numquam inveni, nisi in angulo cum libro, "ho cercato pace per ogni dove, ma l'ho trovata solo tra le pagine dei libri"), per qualcuno è salire in bici e andare, non importa dove, però andare. Fino a quando ci siano luce e forze.
Nel giorno della famiglia, quale è sempre stato il Natale, chi non ha più i genitori e non ha avuto figli si sente come la radice quadrata di un numero negativo, un refuso del possibile, un essere scaleno che non ha posto in nessun posto. Man mano che passa dicembre, ci si chiede non tanto quanto manchi a Natale, ma chi. Quindi forse alcuni di questi esseri scaleni vanno in bici anche per tentare una fuga da se stessi.
Pedalavo nel vuoto e pensavo a come sarebbe bello che le strade fossero sempre così. Ma era un mio egoismo, non possiedo tra l'altro una vettura da ventisette anni, e poi non è possibile. Siamo ormai una società dove non si può fare a meno delle automobili, quasi coessenziali alle scansioni delle nostre esistenze, e poi stiamo disegnando un futuro dove le auto saranno diverse, molto più costose e silenziose, alcune perfino guidate da se stesse.
Ecco, il silenzio. E' stato un Natale di vento, e solo chi va in bici conosce l'asprezza del vento contrario, e l'effetto acustico delle folate a volte mi dava l'illusione di un motore incombente. Solo chi va in bicicletta sa che l'udito sia fondamentale. Ascoltare un motore che arriva ti aiuta a regolarti; quando i veicoli a motore saranno tutti silenziosi andare in bici sarà molto più difficile di adesso. Che è già complicatissimo.
In bici c'è molto tempo per pensare. Non si parla con nessuno, non si consulta il telefono, sei costretto a restare con te stesso anche se non è la più piacevole delle compagnie. Così pedali e mediti, e in questo Natale ne ho avuti di motivi di meditazione. Le aspettazioni, le assenze, i fraintendimenti, il bene che si vuole e quello che si vorrebbe, e a proposito di bene anche quello sprecato, le paure, la bellezza di arrivare in cima a una salita per dire a se stesso di avercela fatta.
Già, le salite. Andare in bici, come la corsa, è un modo di misurare se stessi. In tutto il mio circuito paesano c'era una sola salita, nemmeno cento metri e nemmeno cattiva, giro dopo giro si faceva però sempre più lunga e ripida, ma ero io e non lei. E questo dà il senso del tempo e della necessità di scendervi a patti.
Non si è visto mai il sole, in questo Natale che ho passato in bici, ma c'era. Quando stava per andarsene, dietro le nuvole, ha smesso di funzionare il mio fanalino posteriore rosso, avevo avuto troppo poco tempo per ricaricarlo, o forse era in sincrono col principale, lassù e lontano, tempo di scadenza ancora cinque miliardi di anni. Noi non siamo ricaricabili, invece, di Natale in Natale si pedala forse ancor più a vuoto e nel vuoto di quanto non abbia fatto io stavolta. Sempre cercando uno scampolo di bellezza, per trovarlo quando e dove non te lo aspetti. Oppure mai. Oppure proprio nello stesso cercare.
Quando si pedala c'è tempo solo per quello, oppure per ascoltare le voci di dentro. E per tutto il percorso - inspiegabilmente, come quasi tutti i miei pensieri associativi che mi portano a parlare di una cosa che non sembra entrarci niente con quella di prima - fino a quando le ombre e l'acido lattico mi hanno ingiunto di fermarmi mi aveva accompagnato una canzone, una canzone straordinaria, riascoltata nei giorni scorsi perché se n'era appena andato uno degli autori, la canzone era "Elettrochoc" dei Matia Bazar, il coautore Mauro Sabbione e in qualche modo, mai saputo perché, c'era di mezzo anche Enzo Jannacci, il terzo asse cartesiano della mia giovinezza e già è molto jannacciano strologare che gli assi cartesiani siano tre. Sceso dalla bici, ormai sotto la mia vecchia casa ormai vuota, era ancora Natale e non per molto, ho ripensato un'altra volta ancora a una sua frase, una delle più natalizie che conosca: "Se il Nazareno tornasse ci prenderebbe a sberle tutti quanti. Ce lo meritiamo, eccome, però avremmo così tanto bisogno di una sua carezza".