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di Matteo Angeli

 Il calcio è la cosa più importante delle cose non importanti” disse un giorno Arrigo Sacchi. Si potrebbe stare ore a discutere su questa frase perché in molti direbbero che il calcio è la cosa più importante. In assoluto. Ma di sicuro questo sport è qualcosa che va oltre tutto, qualcosa che coinvolge gente di ogni età e ceto sociale, qualcosa che, a volte, fa persino perdere la testa.

Il calcio, diciamo la verità, è soprattutto passione e amore incondizionato per i propri colori. A Genova si è giocato per la prima volta a football nel 1893 grazie all’intuizione di un gruppo di inglesi e non a caso questa è una delle città italiane dove il calcio è più amato. Dove in pochi tifano le “grandi”, dove tutti preferiscono sempre e comunque Genoa e Sampdoria.

La storia della bandiera di Boccadasse potrebbe facilmente essere etichettata come una classica “storia di provincia”, a noi invece piace da pazzi perché mette in risalto tutto quello che di bello questo sport è in grado di regalare. Lo sfottò, la voglia di due vecchi ultras blucerchiati di non vedere più quei colori sulla scoglio e al tempo stesso la reazione compatta del mondo rossoblù.

A issare il nuovo vessillo sullo scoglio Dario Bianchi, uno degli storici leader della Nord, uno dei fondatori della Fossa dei Grifoni e il “papà” dei maxi bandieroni che hanno fatto la storia della gradinata. Non poteva che essere lui quell’uomo vestito come Diabolik a emergere dall’acqua con in testa il “camugin” rossoblù, il tipico berretto dei pescatori genovesi. A salutarlo con un lungo applauso bambini, giovani, meno giovani e anziani emozionati.

Muri dipinti (a volte anche troppo), scalinate colorate, adesivi ovunque. Il derby a Genova è nelle strade, nei vicoli, sui muri di ogni quartiere. Solo qualche volta risse e scazzottate notturne, per il resto tanta sana rivalità e basta.

Quello che può apparire comunemente come un gioco riesce a smuovere gli animi, portare gioia, tristezza, unione e rabbia. La propria squadra del cuore, che piaccia oppure no, diventa una parte essenziale della vita di molti. Come quella di Carlos Bejar, un uomo di 82 anni di Entres Rios, che per seguire la finale della sua Argentina ai Mondiali si è piazzato tre ore prima su una vecchia sedia di legno davanti alla vetrina di un negozio di tv. Non vi sarà difficile immaginarlo mentre Messi faceva il giro di campo in trionfo.

Immortale, irrazionale, infinito, insensibile al dubbio e all'incertezza: il tifo, quello vero, è così. Chi non lo capisce se ne faccia una ragione.