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di Franco Manzitti

Preparando la docu-serie di Primocanale, che andrà in onda da fine gennaio sulla storia delle grandi famiglie imprenditoriali (e non), ho scoperto la grande capacità di rischio, di coraggio, di iniziativa dei zeneisi. Bella scoperta!, si potrebbe dire, ricordando l’epopea del nostro popolo, i suoi eroi, i suoi capitani, i suoi scopritori, appunto quel gene secolare che ha segnato Genova non solo nel suo mitico secolo d’oro ma avanti, sempre più avanti fino ad oggi. Anzi fino a ieri.

Dove sono finiti questi geni coltivati nel nostro mare, il mare delle tre religioni a confronto, del marranismo, delle grandi praterie blu dove la nostra bandiera era invidiata, temuta e perfino copiata dalle potenze mondiali? Dove è finito quell’estro coltivato in questa stretta striscia di terra, tra le colline e il mare che faceva sostenere dal grande Fernand Braudel che in verità il territorio di Genova è molto più grande: si estende lungo quel mare, capace di essere attraversato per conquistare, per dominare, per scoprire?

Mi è venuto il dubbio che sia sparito il gene genovese, che i temi moderni l’abbiano annientato, magari bruciandolo in un altoforno di quelle acciaierie che per decenni, dagli anni Cinquanta a oggi, hanno in parte soffocato la nostra capacità imprenditoriale, esaltando il pubblico, riducendo il privato sotto un ombrello protettivo.

Ho pensato che anche la capacità di battere moneta e di  trafficare con i soldi, inventando le banche e il tasso di sconto, sia finita a fondo tra scandali, clamorose defaillance, in un mondo globalizzato, finanziariamente tanto grande da ridurre i nostri forzieri a pulci. Ho visto estinguere quasi del tutto la razza armatoriale, probabilmente la più ancestrale, cullata da quel porto ombelicale, dove si continuano a combattere battaglie epocali contro monopolii, esclusive, padronati che si susseguono, da quelli affascinanti dei camalli a quelli dei liners moderni, potenti ovunque, capaci di dettare leggi e rotte, scavalcando le nostre banchine oramai insufficienti, strette per i giganti del mare, che appaiono all’orizzonte come mostri.

E potrei continuare a raccontare il destino di quei geni, forse sperduti, forse solo addormentati, deviati altrove dai ritmi di quella globalizzazione.

Ma nel giorno di Natale, alla vigilia di un altro anno, nella tempesta della pandemia, preferisco tornare a Dynasty, confidare in quello spirito di tradizione, di forza, di coraggio, di rischio, di retaggi, di sfide vinte o magari anche perse, ma con onore, che è cresciuto su questa scena impareggiabile.

Avremo un porto più grande, con la nuova diga. Avremo nuovi centri di eccellenza informatica, tecnologica. Avremo, se Dio vuole, nuovi collegamenti, dopo i decenni dell’isolamento di strade e ferrovie.

Su quelli correranno i geni genovesi che non possono essersi disintegrati. E’ una preghiera di Natale. E’ un augurio per il 2022.