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di Stefano Rissetto

Tra molti anni, qualcuno ancora ricorderà che a Genova ci furono giorni in cui le persone si incontravano per strada e, ancor prima di dirsi una sola parola, gli scendevano le lacrime. Era di venerdì mattina, quando germogliò dal nulla tutto questo nulla e si inceppò l’orologio di una grande famiglia, di fronte al mistero dell’inconoscibile, nell’accartocciarsi di ricordi lucenti, oramai intrisi per sempre di opacizzante melancholia. Stavolta i Magi non avevano doni.

Eravamo preparati, eppure non eravamo preparati. Non lo si è mai, quando la ricerca del senso di una fine ti si impone con un nome e un volto che ti avevano accompagnato nel tempo, anni e anni di allegrezze e vertigini calcificati in un istante. Erano entrati i ladri nel nostro cuore, si erano portati via scegliendo bene tra le cose importanti, come se sapessero dove e cosa cercare.

Di cosa parliamo quando parliamo di Gianluca Vialli? Non parliamo di un calciatore, o non solo di un calciatore. Nemmeno di un uomo, che ignoreremo sempre chi sarebbe stato se non fosse stato bravo a giocare a pallone. Forse parliamo di lui per cercare di capire quello che nessuno, dall’autore di Gilgamesh a oggi, ha mai compreso: perché nasciamo, proprio qui, su questo granello sperduto nello spazio, e nasciamo avendo una sola certezza, la certezza che duriamo poco, e qualcuno dura davvero troppo poco, se ne va quando sono ormai in tanti, in troppi, che ne sentiranno l’assenza.

Ogni morte è uno specchio, un promemoria. Così adesso siamo tutti tristi e lo siamo da giorni, specie se abbiamo dovuto lavorare su un addio che è un congedo anche a una parte di noi stessi. La giovinezza, che è una illusione, oppure la felicità, ancora più ladra.

In questi giorni abbiamo parlato d’altro, per parlare di Gianluca Vialli. Abbiamo visto i fiori al cancello della villa di Quinto, con la sciarpa nerocerchiata e un adesivo con l’anno 1987, proprio quello in cui la sua strada e quella della Sampdoria rischiarono davvero di dividersi dopo solo tre stagioni. Catello Cimmino oggi ha 57 anni, forse soltanto lui ricorda di quando stava per arrivare a Genova al posto del calciatore che, mentre lui smetteva nella Sambenedettese, al secondo tentativo e con due colori in meno sulla maglia andava a prendersi una coppa che nel frattempo aveva cambiato nome.

E’ capitato pure, in questi giorni in cui sembrava non volesse smettere di piovere mai, di spingersi fino al pontile di Quinto dove finisce la Bella Stagione, una ringhiera sul mare grigio e nervoso, a guardare il filo dell’orizzonte, a interrogare le nuvole basse. Come quei personaggi di Michele Mari, obliqui e dannati in racconti quali “La morte, i numeri, la bicicletta” oppure “Tutti vivemmo a stento”, pagine che sembrano esistere solo per smettere di farlo senza motivo. Eravamo stati tanto lieti per merito del nostro numero 9 e quella letizia ora trascolora in feroce compensazione. Quando chiesero a Mantovani cosa avesse pensato dopo una grande vittoria, la risposta fu “Ho pensato: chissà come sarà contenta tanta gente”. La stessa che oggi quando si incontra non parla ma chiude gli occhi e li riapre solo per leggere quelli di chi ha davanti.

Alta la torre baluginava in lontananza. Al termine della cerimonia, in una chiesa tirata su col righello, affollata di vecchi ragazzi una volta scintillanti, a ridosso dell’altare cinque maglie dai colori diversi ma dallo stesso numero e nome, nel freddo pungente e fradicio della Bassa, sotto una luna che faceva paura da quanto era bassa e quanto era bianca, usando il passaggio dei chierichetti che stavolta spettava alla stampa, mi sono affacciato sul buio, e dentro il buio c’era il verde, e tornato a cinquant’anni prima, in quel verde ho immaginato di veder correre l’ombra di un ragazzino che andava verso se stesso, non sapeva quanto sarebbe durata la partita, quasi certamente non sapeva nemmeno che cosa fossero la Sampdoria e i suoi colori, poi si è spenta l’illuminazione di una Natività dipinta sul muro, ora che sono finite le feste si spegne tutto in giro, come nella “Storia del Mago”, ed è finita nel buio anche la scritta “Oratorio Cristo Re”.

Poi sul piazzale ho incontrato lui, e ho pensato che se davvero era stato uno scherzo dei suoi questo avrebbe potuto risparmiarselo, però che bel finale. E’ stato un piccolo piccolo attimo grande come l’infinito, infinito come il vuoto di questa mancanza che cresce. Non era lui invece, era suo fratello maggiore. Uguale uguale. A quali fraintendimenti porta la mancanza, ce ne accorgiamo adesso che quella squadra di magnifici ragazzi è stata presa a cartavetro dal tempo, dal portiere invincibile allo stopper che inceneriva con lo sguardo, fino a lui che adesso è già una nostalgia, per quel che è stato e soprattutto per quel che sarebbe stato. E se ne sono andate via le rose blu, le rose bianche, le rose rosse, le rose nere, le rose grigie e le rose azzurre, svanite nel quadrangolo dei platani spogli, mani rattrappite protese a un cielo silenzioso. Si è richiuso il portone della chiesa, alla fine di questa preghiera in gennaio, nella frantumazione dell’eco di un ultimo applauso in contumacia a chi ne aveva mietuti di immensi di stadio in stadio. Forse gli anni a venire sarebbero stati uno spreco di fiato, uno spreco di fiato quelli passati, davanti a questa vita, a questa morte. Di cosa parliamo quando parliamo di Gianluca Vialli? Di quanto sia fragile, forse, e irrinunciabile, anche quando finisce, la felicità.