L'ultima volta che mi sono trovato da solo con mio papà, prima di andarmene gli ho appuntato all'occhiello quel vecchio distintivo smaltato del Doria che mi aveva regalato quando ero bambino, prima non potevo perché era una cosa mia e sua, tutta la gente che era venuta a salutarlo avrebbe capito e non capito, poi ho fatto cenno di entrare a quelli col saldatore e l'avvitatore, ormai facessero pure, gli ho dato ancora una carezza e ciao. Allora uno di loro ha visto il distintivo e mi ha guardato e mi ha sorriso, da ragazzi eravamo stati accanto a San Siro, in curva Nord, quella volta del gol di Chiorri, la prima trasferta da soli col permesso dei nostri papà. Quando si parla del calcio come se fosse soltanto calcio, si perde il significato di un mistero che nessuno riesce a spiegare, non ci riesce neppure chi ne abbia fatto la colonna sonora della propria vita.
Quando papà mi portò a Genova a conoscere la Sampdoria - come nell'autunno del 1946 un suo zio lo aveva portato sulla canna della bicicletta da San Bartolomeo a Chiavari, a vedere "quella squadra nuova" in una delle prime amichevoli - non avrei immaginato che quella partita del 9 aprile 1972 sarebbe stata una delle cose più importanti della mia vita. Non tanto per il risultato, quanto per tutto quello che è venuto dopo. L'inclinazione a raccontare le partite più che a giocarle, anche perché a giocarle ero proprio scarso, quindi il piacere di scriverne, fino a trovarmi a farne un mestiere che ti sceglie e che ho fatto volentieri anche scrivendo quasi sempre d'altro, perché sul calcio e sulla Sampdoria non è mai stato solo bello ma faticoso il doppio, quindi fonte di amarezze col passare dell'età. E poi una giovinezza che si era fatta vertiginosa all'improvviso, dieci anni che rivisti oggi fanno paura per quanto erano stati fiammeggianti, e a volte mi chiedo se tutto quel che è stato sia stato davvero. Sì, ha fatto parte della mia vita, una parte importante. E non sono il solo a poterlo dire.
Ma questo inverno è davvero orribile, oltre ogni colpa da scontare, se mai sia stata colpa quella che fu una giusta fortunata breve felicità. In una trista sintonia, mentre la squadra precipita sempre più in fondo al fondo di un pozzo che sembra senza fine, ci siamo visti strappare per sempre due ragazzi che tanto ci avevano fatto divertire ed esaltare e alla fine commuovere, per come avevano vissuto con dignità e garbo il loro destino scritto. I sostenitori vanno lo stesso allo stadio, in casa e in trasferta, come il macchinista che deve sempre azionare ritmicamente il pedale doppio per dimostrare di esserci ancora, di poter guidare la locomotiva. Ma è un fischiettare nel buio, per paura che se finisce il fischio finisce tutto.
Alla morte della patria - "certamente l'evento più grandioso che possa occorrere nella vita di un individuo", scrisse Salvatore Satta nel suo memoriale dal profondo della guerra civile italiana - o al suo solo pericolo, ci si può disporre con indole diversa. Per quel che mi riguarda, lo stato d'animo è quello di Franz Ferdinand Trotta, l'io narrante del romanzo di Joseph Roth sulla fine dell'impero asburgico, sul tramonto di un mondo che era stato il mondo. "Trascorreva un vento leggero e faceva dondolare i vecchi lampioni che ancora non si erano spenti, non questa notte. Camminavo per strade deserte, con un cane sconosciuto. Era deciso a seguirmi. Dove? – Io ne sapevo quanto lui... Dove devo andare, ora, io?".
Ma l'elegia non è la dimensione di questo presente rabbioso, trascinato da se stesso su piani e gerghi che alla Sampdoria erano appartenuti raramente, mai però con toni così grotteschi. Il piano inclinato su cui nottetempo e clandestinamente si era deciso di mettere l'Unione Calcio non poteva che portare a questa situazione.
C'è ancora tempo e modo per scongiurare una fine che era annunciata fin dal 12 giugno 2014, quando era stato messo nelle grinfie più inadeguate possibili un bene meraviglioso e amato da una moltitudine e da tutti quelli che ne avevano servito la causa, li abbiamo visti proprio due domeniche fa allo stadio, i volti cartavetrati dal tempo, canuti e piegati dal dolore a ricordare il loro condottiero che sembrava invincibile.
Quel gesto, innanzitutto antistorico e pregiudizievole per chiunque vi sia coinvolto tranne il beneficiario, non attenua la sua portata negli anni: perché la lunga attesa dei condannati al patibolo è peggio del patibolo stesso, tanto che alla fine quasi agognano la forca come una liberazione. In mani così, fin da subito sapevamo perfettamente che sarebbe finita in questo modo. L'incognita era solo il quando. Se a suo tempo fossero state fatte scelte meno opache, magari differite fino a un'occasione decente, oggi parleremmo di tutt'altro. Nessuno si dorrebbe di nulla. E il furore sarebbe gratitudine.
Nei confini inviolabili di una giusta civiltà di modi, non si tratta adesso più di distribuire o stornare da sé colpe, di intimare silenzi, di emanare scomuniche, di disconoscere o riformulare gli accadimenti, come se ricordare le responsabilità storiche - a tutti peraltro note - fosse esecrabile; di uscire magari alla chetichella, come se niente fosse stato, dalla scena del misfatto. Si tratta di guardare a quel che è successo, a quel che può succedere, a come in ultimo salvare qualcosa che l'atroce fine prematura di un fuoriclasse gentiluomo come Vialli ha riportato alla luce, in tutta quella che era la sua bellezza. Chi può e deve fare qualcosa lo faccia. E lo faccia presto. Lo faccia subito. Anche per tutti quelli che hanno avuto un papà che da piccoli li aveva portati a Genova a conoscere la Sampdoria, un papà che per un segno di fedele gratitudine porterà all'occhiello quel distintivo fino alla fine dei tempi.