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di Michele Varì

GENOVA -Chi commette un reato e non sarà mai individuato dalle forze di polizia non subirà mai nessuna pena, chi pur colpevole viene arrestato può sperare di farla franca se ha un buon avvocato, chi invece è condannato dopo i tre giudizi ha diritto ai vari benefici di legge che gli garantiranno che della pena inflitta ne sconterà solo un minima parte.
La vera certezza della pena è di chi il reato lo subisce.

E' emblematico il caso di Silvana Smaniotto, una donna prigioniera del suo dolore e di una pena da 27 anni.

Silva è la mamma di Nada Cella, la segretaria uccisa il 6 maggio del '96 nell'ufficio dove lavorava a Chiavari da un assassino ancora senza nome: la donna ha sempre implorato la polizia di individuare e arrestare l'assassino.

Prima di lei lo aveva fatto il marito, Bruno Cella, un falegname che prima di essere stroncato da un infarto proprio davanti al cimitero dove è sepolta la figlia,  si sedeva ogni mattina su una sedia davanti all'ufficio del tribunale di Chiavari del pm titolare delle indagini Filippo Gebbia come per marcarlo a vista, per ricordargli il suo dolore.

Non è servito a nulla.

Due anni fa, una criminologa barese che sa fare il suo lavoro, Antonella Delfino Pesce, spulciando fra il mare di carte dell'indagine si è accorta che 25 anni prima ai poliziotti della mobile titolare dell'indagine il pubblico ministero non aveva mai riferito che i carabinieri, che avevano svolto una piccolissima parte dell'inchiesta su un'amica del commercialista dove lavorava Nada, avevano trovato nella sua abitazione alcuni bottoni identici a quello rinvenuti sul luogo del delitto.
Sarebbe stato molto importante per l'indagine, forse decisiva.

Ma il pm si è dimenticato di farlo.

I poliziotti hanno appreso del bottone solo due anni fa e hanno clamorosamente riaperto il caso. Un'indagine bis che, guarda caso, vede indagata per l'omicidio la stessa donna di 25 anni prima che lo smemorato Gebbia aveva sbrigativamente archiviato dopo pochi mesi.

La soluzione del giallo infinito di Chiavari ora è appesa al codice genetico dell'indagata, che è stato comparato con alcune macchie di sangue rilevate sulla scena del delitto. Un anno e mezzo dopo, nei giorni scorsi sono arrivati i primi responsi, ancora non comunicati dalla procura, e non si capisce perché.

Speriamo tutti che possano essere decisivi a risolvere il giallo. Ma dalle prime indiscrezioni, anche stavolta non ci sarebbe nessuna pistola fumante, nessuna prova.


Silvana Smaniotto a Primocanale tre giorni fa, commentando l'indiscrezione ha avuto solo la forza di dire provata: "Non ho più voglia di aspettare, sono stufa, quegli esami avrebbero dovuto farli 25 anni fa".

Venticinque anni fa quando i carabinieri non cumunicarono i loro reperti ai poliziotti e i poliziotti si guardarono bene di chiedere ai "cugini" dell'Arma cosa avessero fatto su quella indagata subito archiviata.
Perché polizia e carabinieri allora non si parlavano quasi mai e il pm Gebbia ebbe quella amnesia.

Si dice che il pm Gabriella Dotto, titolare dell'indagine bis aperta due anni fa, convocherà e chiederà conto al collega di allora - ora in pensione - del perché non avesse comunicato il sequestro dei bottoni ai poliziotti. Si dice anche che forse il pm potrebbe essere indagato. Tanti si dice, e una sola certezza: la pena di Silvana Smaniotto, una mamma prigioniera del suo dolore da 27 anni.

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