Il 29 marzo saranno dieci anni senza Jannacci. Perché lo scrivo oggi? Perché neppure stavolta ho visto il Festival, non per snobismo ma per pigrizia e disinteresse: se il nostro direttore Matteo Cantile, ben più giovane di me, ha confessato (leggi qui) di conoscere 7 cantanti su 28, io - da buon boomer - ancora meno.
Però dei Festival di un tempo ho tre ricordi. E avvicinandosi il decennale del Dottore eccoli qua.
Il primo riguarda un artista che io avevo conosciuto come presentatore di un programma per bambini di cartoni animati. Lo vedevo perché appunto ero un bambino. Si chiamava "Gli eroi di cartone", la sigla era "Fumetto" e la ricordo a memoria, per quanto ne circolino due versioni, quella del disco e quella trasmessa in tv. Così quando seppi che quel presentatore avrebbe cantato a Sanremo, alla sera mi misi davanti al televisore. Ascoltai per la prima volta "4/3/43", del testo naturalmente capii poco anzi diciamo pure niente, ancora non sapevo quanto sarebbe stato importante nel prosieguo della mia vita quel presentatore, era Lucio Dalla e di lì a qualche anno avrebbe imbastito la trilogia con Roberto Roversi, con "Anidride solforosa" e "Mille miglia prima e seconda" che sono poesie urlate con dolcezza, e molto più tardi - di capolavoro in capolavoro - avrebbe scritto la colonna sonora dello scudetto, appropriazione indebita nostra certo, "Attenti al lupo". Poi crescendo avrei finalmente capito "4/3/43", anche nella versione non censurata, per restare finalmente impietrito quando Dalla se ne andò e allora De Gregori la reincise in "Sotto il vulcano", pulita pulita e identica all'originale, lui che come Dylan rende irriconoscibili i suoi brani, ma era per l'amico scomparso.
Il secondo fu quando Vecchioni si convinse ad andarci, a Sanremo ma non per il Tenco, il professore quest'anno compie 80 anni ma è dai tempi di "Pesci nelle orecchie" ascoltata per caso a Supersonic che irrazionalmente lo adoro, i suoi dischi hanno significato davvero tanto. Il bello del mestiere di giornalista è che a volte ti permette di avvicinare certe persone. Usavo infatti apposta ogni partita del Doria con l'Inter per chiamarlo e intervistarlo, fino a guadagnare una certa confidenza. Seguii il festival del 2011 facendo un tifo assurdo, una delle serate i cantanti interpretavano un brano storico, lui che è di origini napoletane scelse "'O surdato 'nnamurato", con un bravissimo strumentista al mandolino, certo "Chiamami ancora amore" tra i gioielli del Professore non era dei più memorabili ma quella canzone napoletana, una delle tante meravigliose canzoni napoletane, nella versione di Vecchioni che per la prima volta vedevo con la cravatta, fu indimenticabile. Nell'autunno precedente, per la gara di andata, lo avevo chiamato e mi aveva risposto la moglie, lui non stava bene, le riferii i miei auguri e le dissi che se si fosse aggiustato tutto e se il marito avesse vinto il festival la prima intervista sarebbe stata la mia. Vinse il festival, lo chiamai il giorno dopo, si ricordava la promessa, la prima intervista da vincitore la rilasciò alla "Gazzetta del Lunedì". Così alla prima occasione lo andai finalmente a conoscere di persona in camerino a Genova, al Genovese, gli portai un libro che avevo scritto e si intitolava "La ragazza di San Siro", forse non lo ha letto mai perché parlava (anche) di una partita col Milan.
Il terzo, lo cito per ultimo perché è il più importante, riguarda appunto Jannacci.
Per molti, per quasi tutti è un cantautore di grande ma non enorme successo. Per me rimane, insieme con il genio duale di Magnus & Bunker nei primi 75 numeri di "Alan Ford", resta l'intellettuale italiano che più abbia influito sul mio modo di vedere la vita. Ho provato a leggere libri su libri di ogni genere, andare agli spettacoli o al cinema o all'opera oppure nei musei, ma quando mi guardo allo specchio riconosco quel debito irreversibile nato nei primi anni Settanta, quando ero un bambino che aveva fretta di diventare adulto e ora se ne pente, perché i bambini precoci diventano adulti irrisolti.
Incappai in Jannacci per le sei puntate de "Il poeta e il contadino", che nell'autunno del 1973 (altro anniversario!) vidi su felicissima imbeccata di mio padre, e con Cochi e Renato sublimi interpreti delle scene comiche surreali ideate dal loro ispiratore, che compariva per cantare "La canzone intelligente". Rimasi colpito dal verso "La casa discografica adiacente veste il cantante come un deficiente, lo lancia sul mercato... sottostante". Quello scarto semantico tragicomico mi colpì per la sua acutezza, cominciai a procurarmi tutti i dischi di questo artista, se mi metto a parlarne non la finisco più, dico solo che era il centro di un mondo geniale, nel cuore di quella Milano che per me significa nostalgia dell'inaccaduto, il "Derby" e il "Capolinea" e soprattutto l'"Ufficio facce" del Bar Gattullo. Felice Andreasi, Walter Valdi, i Gufi, Diego Abatantuono, Gianrico Tedeschi, Paolo Conte, tutta la razzumaglia poi riemersa in "Saltimbanchi si muore", sette anni dopo, Beppe Viola che a sua volta era un altro genio, Gaber con cui dai "Due corsari" era passato alla parodia dei "Blues Brothers", pochi mesi dopo che il sodale aveva inciso due brani devastanti come "Io se fossi Dio" e "Il dilemma", e adesso vestiti come Belushi e Aykroyd cantavano "Una fetta di limone", divertendosi come pazzi.
Era il Sanremo del 1991. C'era andato due anni prima, ma con una non canzone troppo difficile per l'Ariston. Stavolta se la giocò con un brano che si chiamava "La fotografia", interpretato anche dalla cantattrice brechtiana tedesca Ute Lemper. Nella serata finale, quei cinque minuti della sua esibizione mi fecero capire perché un suo regista degli esordi, sì perché Jannacci aveva fatto anche teatro e poi cinema e poi suonato jazz con Chet Baker, aveva detto di lui che era l'artista che più gli fosse parso avvicinarsi a Chaplin.
Veniva al mare dalle mie parti. Mi dicevano che, come tutti i geni, era lunatico, se lo prendevi nella giornata sbagliata. Così non ebbi mai il coraggio di cercarlo, una cosa già per gli stessi motivi con Eugenio Montale.
Sono andato a salutarlo soltanto qualche anno fa, il mio giornale aveva chiuso ed ero a Milano per un colloquio di lavoro, prevedibilmente inutile, avevo qualche ora prima del treno e così andai alla mostra di Antonello a Palazzo Reale, per vedere in faccia l'Annunciata. Non c'era coda e così uscito dalla mostra mi era rimasto ancora tempo. Così andai da lui. Dove si trova adesso ci sono per esempio Vladimir Horowitz con la famiglia Toscanini, due statue di Lucio Fontana tra cui il Cristo Redentore, l'Ultima Cena dei Campari. E poi, su tutti, Manzoni. Poi, nel Famedio, Jannacci sta accanto al suo fratello d'arte "giullare e pittore" Dario Luigi Angelo Fo. Vincenzo Jannacci ha voluto la scritta "Medico e artista". Quante ne hanno combinate insieme, da "Aveva un taxi nero" a "Ho visto un re", da "La luna è una lampadina" a "Vengo anch'io no tu no", da "Ho visto un re" a "Il bonzo" fino a "Per la moto non si dà", che qualcuno di mia conoscenza ha voluto fosse suonata alla sua festa di nozze. Forse il Nobel lo avrebbero meritato ex aequo.
Ecco perché Sanremo, oltre che il traguardo della corsa ciclistica più assurda e bella del mondo, per me sarà sempre quell'artista che trentadue anni fa cantò, anzi interpretò "La fotografia". Quel grandissimo artista di Jannacci che qualche anno dopo, in una stupenda intervista, avrebbe detto: "Se il Nazareno tornasse ci prenderebbe a sberle tutti quanti. Ce lo meritiamo, eccome, però avremmo così tanto bisogno di una sua carezza".