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Dopo due anni di pandemia, la speranza in un 2022 dove si torni alla vita vera
4 minuti e 19 secondi di lettura
di Stefano Rissetto

Correva tempo di guerra, il cielo era gonfio di stormi metallici e assordato dal rombo dei bombardieri. Il bambino nel bosco scavalcò la staccionata con un balzo e si voltò, per guardare il passato e contare le nostalgie. Era l'ultimo giorno dell’anno del 1943, sulle alture di Bonassola.

Anche queste ultime dodici lune, delle ormai ventiquattro nere, si sono consumate in rito di conflitto, una mezzanotte lunga otto stagioni, tutti inverni anche le estati, una guerra senza autoblindo ma con le ambulanze, di cui ancora non si vede armistizio. Abbiamo tutti l'anima in cocci e il cuore che batte in testa come un motore affaticato. Eppure stacchiamo dal calendario l'ultimo foglio del 2021 con quella faccia un po' così di un'asciutta riconoscenza zeneize, l’abbiamo sfangata anche se non privi di lividi: siamo ancora qui e non è poco. E come i bambini vogliamo credere che l'anno nuovo si comporterà meglio. Ma meglio di chi e come? Questo non lo sappiamo. Conoscere il futuro, questa sarebbe la vera infelicità. Aspettiamolo e quando sarà passato si avrà un cerchio in più nel tronco, ferite d'armi e di parole che mai nessuno vendicò.

Le mascherine hanno intanto cancellato i sorrisi e i baci, ci hanno trasformato negli amanti incappucciati di Magritte, ignoti l'uno all'altra. Gli abbracci allo stadio, la mano nella mano al cinema, le serate in pizzeria dopo la trasmissione: troppe le cose che ci mancano, come le persone: sono volati via tra gli altri l'artista che ci aveva insegnato come fosse difficile trovare l'alba dentro l'imbrunire, l'editore che aveva costruito un castello di libri impervi e faticosi per dissimulare il bambino che parlava col suo gatto di pezza, il direttore di quello che fu l'ultimo giornale del pomeriggio.

Nella danza delle ore la musica non cambia. Si è spento il sole e chi lo ha spento sei tu, con l'eclissi totale si scorda il cuore, è difficile capire se non hai capito già. Dalla finestra, ogni mattina, su un terrazzo del palazzo di fronte vedo la Nina, una bimbina nata nell’aprile dello scorso anno quando eravamo tutti chiusi in casa, a un certo punto la ragazza con la pancia era sparita e quando era tornata era appunto con la Nina, che adesso comincia a camminare da sola, e se la chiamo quando vorrebbe aiutare la mamma a stendere i panni allora sorride e saluta con la mano, ha già capito il suo nome. Se le andrà bene, potrà brindare al capodanno del 2100.

Che mondo sarà? Ha l'aspetto di un motore che non va. Forse la Nina presto potrà andare dal Porto Antico a Boccadasse in passeggino e pian piano a piedi, da ragazza ci metterà un'ora a raggiungere Milano in treno, magari correrà o pattinerà sulla Sopraelevata pedonale fino a quando, presa la patente, da Levante a Ponente userà il tunnel sottomarino. Naturalmente guarderà Primocanale o forse ci lavorerà, ammirando la città dalla terrazza più bella del mondo. Una terrazza che ha 82 anni, mentre entra felicemente negli "anta" la mia tv, che in verità non posso dire davvero "mia", perché ogni volta che mi trovo bene in un posto c'è una parte di me che mi fa sentire in fondo fuori posto, capitava all'università ("perché hai fatto legge e non lettere?”… e poi “perché non ti fermi in istituto ma vai a fare il giornalista?”), al giornale ("sei troppo scrittore per fare il giornalista, perché non scrivi romanzi?"), nelle librerie ("bel romanzo, ma si vede che sei troppo giornalista per fare lo scrittore”) e non parliamo di tutti gli altrove e gli altrimenti in cui ho sempre trovato casa. E’ molto bello lavorare qui ma dal 1982 a oggi questa tv l'hanno costruita e fortificata tutt'altre persone, io sono solo, per quanto ormai infeltrito, uno degli ultimi tra gli ultimi arrivati. Però la vita, si è sempre detto, comincia a quarant'anni e quindi Primocanale inizia adesso. Un’azienda editoriale, dove non c’è traccia di quella carta che fino a poco fa era imprescindibile per fare informazione, d’altra parte riparte ogni mattina. Magari un giorno, sanando in parte un orfanaggio troppo recente, anche io di questa tv potrò dire "mia".

L'ultimo giorno del '43, nel bosco di Pian Pontasco a Montaretto di Bonassola, saltata la staccionata il bambino sfollato dal suo paese si voltò e lesse sul cartello "Achtung Minen". Aveva attraversato indenne un campo minato e lo avrebbe capito solo un attimo dopo essersi salvato. Vent’anni dopo quel bambino diventato uomo avrebbe avuto un figlio; ed è solo per quel miracolo di San Silvestro che sono qui, perché il figlio di quel bambino scampato alle mine tedesche sono io, a scrivere questa lettera a un anno nuovo.

Come fosse una persona sconosciuta, questo 2022 lo vedo arrivare con circospezione più che con fiducia. Non senza speranza, certo. Ricordo un bellissimo film del mio amato Mazzacurati, La giusta distanza, un film fatto di silenzi e lontananze e luci deboli e colori fragili della Laguna veneta (nell'immagine, un fotogramma della pellicola), uno straordinario Bentivoglio nel ruolo di un giornalista quasi vecchio e fuori dai giochi, a un certo punto illuminavano lo schermo le parole con cui accolgo il nuovo anno: "Come anima inseguita da ombre, aspetto tremante che il sole torni".