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Il disco di Sergio Caputo, con un brano scritto a Genova, simbolo degli anni Ottanta, tra speranza nostalgia
4 minuti e 43 secondi di lettura
di Stefano Rissetto

Ci dev’essere stato un momento in cui si è rotto il termometro, con il mercurio a piccole palline liquide e brillanti a scivolare dappertutto, un attimo per lo spezzarsi della molla che governava l’orologio. Nell’infanzia i pomeriggi e quindi gli anni non passano mai, poi a un certo punto il tempo accelera e così ti trovi, quarant’anni dopo, ad ascoltare un album adulto però da ragazzini, incerto sulla sua stessa età come su quella dell’autore, e non ti sembra vero che il 1983 sia così distante, ormai. Non esistevano ancora i compact disc, sarebbero arrivati qualche tempo dopo, e i long playing ormai estinti sopravvivono come lusso per chi se li possa permettere. Ma basta canticchiare "Mi fanno male i piedi a furia di ballare, un pediluvio nel tuo cuore mi concederò" per sorridere, chi mai aveva e avrebbe usato una metafora come quella.

Era quell’anno come un filo teso tra la fine del liceo e l’inizio dell’università. C’era chi non sapeva se fare il concorso a Pisa, e non sapeva se farlo per studiare filologia oppure fisica, oppure prendersi tempo scegliendo giurisprudenza, sempre per quel precoce frainteso amore per il giornalismo. In quegli anni poco limpidi non potevano essere chiare le idee, ci si lasciava vivere in attesa che le cose accadessero. L’odore acre dei Settanta era ancora presente, impregnava i muri e gli abiti e le menti, non a caso il film dell’anno, “Sapore di mare”, puntò la macchina da presa della nostalgia direttamente sui Sessanta, saltando quel decennio di piombo vissuto da bambini, tra posti di blocco e scioperi e bombe e agguati e prigioni del popolo e sangue sull’asfalto delle città.

Poi con la primavera arrivò quel disco, nato a Roma da un ragazzo neppure trentenne che per forza di cose aveva respirato come tutti nella Capitale lo zolfo del terrorismo e il buio dei coprifuoco, adattandosi a contrastare la paura con l’umorismo e la melanconia. Non somigliava a nessun altro, tra gli artisti dello smisurato giardino che andava da Claudio a Claudio, da Lolli a Baglioni, da Ulrike Meinhof a Signora Lia. E nemmeno quell’ellepì sembrava qualcos’altro, nulla riecheggiava. Un disco notturno eppure allegro, allegro eppure triste, triste ma sfacciato, prensilissimo all’ascolto ma gozzaniano fino al manierismo nella sapienza del finissimo tessuto testuale.

Che cosa mai fu questo “Un sabato italiano”, perché da allora non abbiamo smesso di ascoltarlo, ricorrendovi come a un antidepressivo naturale, come a un amico che sa già cosa vuoi chiedergli e ha già pronte le risposte? Era qualcosa forse in cui specchiarsi, per i diciottenni che guardavano curiosi e perplessi al mondo dei vecchi, ovvero dei trentenni. I segreti nel cuore da non rivelare mai, le bionde tinte e le birre tutta schiuma, le corse in automobile carrozzata dissociazione, un angelo al citofono, alla fine quasi tutti sanno tutto, spicchio di luna questa notte dove sei. Lo imparammo a memoria, quel viaggio al termine della giovinezza, lo avremmo adottato come un breviario profano per guadare il tempo a venire.

Si provò anche l’orrido cimento prescritto dalla copertina del vinile, che sul retro abbinava ognuno dei dieci brani a una consumazione alcolica, alcune parecchio alcoliche, ma non si ha notizia di chi sia riuscito ad arrivare davvero alla fine di un cimento che, dopo l’idrofobina vegetale sostitutiva della Citrosodina granulare, e già un disco che si apre con un farmaco digestivo la dice lunga, prevedeva Guinness, Bloodhound, Paradise, Fernet Branca, Eggnog, Abat-Jour, Alexander, Margarita e Tung, quest’ultimo abbinato a “Spicchio di luna”, scritta - come avrebbe detto l’autore molti anni dopo, per il ventennale o trentennale chi ricorda più - in una soffitta di via San Luca. “La guardo - ricorda - e mi si stringe il cuore, le voglio molto bene, ma non è lei la donna della mia vita … e io non sono l’uomo della sua. Il problema è che stiamo bene adesso, ma siamo tutti e due ancora troppo selvatici, e cerchiamo ancora chissà che, la vita ci porterà altrove. Sui tetti di fronte c’è un meeting di gatti, ci sono comignoli alla Mary Poppins, e, ancora più in su, un incredibile, grafico e molto teatrale spicchio di luna che si riflette nel mare, all’orizzonte, oltre i tetti più lontani. E’ così che Roberta prende, nel musical immaginario della mia vita, il nome ‘navaho’ di Spicchio di Luna”. E chi non ha mai incontrato, chi non si è mai sentita come Spicchio di Luna.

Quel disco si spiega, insomma, con il tempo che corre, risalendone il corso e riandando a quella musica vi si ritrova ogni volta qualcosa che non si era mai visto né sentito. E le abbiamo cantate anche noi, tra amici, con la cassetta registrata nel mangianastri che si portava via dalla macchina ogni volta per non farselo rubare, come se fossimo “Io e Rino”, con “quella strana tristezza che ci prende dentro e fuori” all’incrocio tra Via delle Comiche Finali e Viale degli Orrori. Da quel disco nacquero anche “grandi imprese e amori fallimentari”, “abissi imperscrutabili” erano le donne e non solo quelle degli amici, insomma ogni volta che lo si ascolta si torna all’estate della maturità, anche di estati se ne sono passate altre quaranta, per noi come per quel disco e anche per Sergio Caputo, che da allora ha scritto e cantato altre canzoni e inciso altri album molto belli. Ma per molti di noi resta il ragazzo del “Sabato Italiano”, e a chi non aveva diciott’anni allora è un po’ difficile spiegare perché, impossibile forse. E oggi come allora vorremmo dire: il peggio sembra essere passato.