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di Mario Paternostro

Quando si avvicina la data del 25 aprile invece che andare a presidiare i cantieri con i miei coetanei pensionati, giro per lapidi e targhe. Mi spiego: la nostra città è fortunatamente ricca di targhe che ne ricordano in sintesi storia, storie e personaggi. Spesso si tratta di elenchi di nomi, partigiani, martiri, nati nel quartiere o nel paese dove la targa è stata posta.

Scoprirete così che la stragrande maggioranza dei partigiani, vittime di eccidi e rappresaglie o di scontri con il nemico nazi-fascista, erano giovani, anzi, giovanissimi: ventenni, addirittura diciottenni.

E se approfondite l’argomento,  magari utilizzando il bellissimo Memoriale “Noi Partigiani” di Gad Lerner e Laura Gnocchi leggerete le loro storie. Mi piace ricordare le parole di Gianfranco Pagliarulo presidente nazionale dell’Anpi quando il lavoro fu presentato. In questi giorni possono essere parole molto utili e non retoriche.

“Questo è uno scrigno che contiene e conserva le parole e i volti di tante partigiane e partigiani. Va maneggiato con la cura ed il rispetto che si deve alle madri e ai padri che hanno generato un Paese altro, diverso e opposto a quello fascista: l’Italia – come è scritto sulla Costituzione – del lavoro e della pace. Tutti molto anziani, naturalmente. Immaginiamoli da giovani, da ragazzi, alcuni da ragazzini, quando, spesso in modo diverso l’uno dall’altro, ma uniti tutti dalla volontà di liberazione e di libertà, affrontarono un nemico spietato ed infinitamente più forte, e lo sconfissero. È il loro dono per questo ci sono cari . Non è un libro di storia, perché evoca un sentimento di gratitudine e ci presenta una galleria di ricordi che collega il passato al presente, che ci fa umani fra gli umani. Ragazzi di allora che parlano ai ragazzi di oggi, come se dicessero che sì, si può e si deve cambiare, mettendosi in gioco. Un messaggio che propone una tensione alla cittadinanza attiva, un impegno che accomuna la generazione della radio a quella del web.”.

Tornando ai miei giri per lapidi, mi sono imbattuto, durante un sopralluogo per la preparazione del prossimo docufilm su Primocanale su Genova, su una targa curiosa.
Siamo ad Aggio in Valbisagno, poco sopra San Siro di Struppa. Un luogo incantato il cui nome, ho letto, deriverebbe da “aglio” in genovese “aggiu”, l’aglio selvatico molto comune nella zona.
Siamo nella valle del rio Torbido, con le case disposte una sull’altra, a gradini sulle rocce. Di qua i viaggiatori passavano per andare a Creto, provenienti dalla città o dal Levante attraverso Sant’Eusebio e Bavari.
In piazza, vicino alla chiesa c’è questa targa posta dal Comune di Genova: “A ricordo di don Nicola Ricchini, parroco di Aggio, che nel 1944, per aver salvato la sua gente dalle atrocità della guerra fu rinchiuso dai nazifascisti nel campo di sterminio di Flossemburg dove venne umiliato e più volte torturato. A fine guerra gli alleati lo estrassero, ormai morente, da una fossa comune e, dopo intense cure, riuscirono a riportarlo in vita restituendolo alla sua missione di pace”.
Approfondendo si scopre una storia curiosa. Ci aiuta un leader storico dei partigiani, Paolo Emilio Taviani con i suoi diari.

Tutto comincia con uno spaventoso boato ne pieno della notte. I partigiani avevano fatto saltare in aria un deposito di tritolo dei tedeschi. Il parroco don Ricchini aveva preavvisati dell’esplosione gli abitanti, facendo suonare le campane della chiesa in modo che tutti potessero mettersi al sicuro.
Racconta Taviani: “Seguirono i fragori dell’eco, nei meandri del vallone che scende da Creto. Tutta la gente di Aggio, gli abitanti di sempre e gli sfollati di città, ne fu svegliata di soprassalto. Ma nessuno uscì di casa. Ognuno capì che eran stati i partigiani. La mattina seguente appresero che era saltato il ponte. E le comunicazioni con la città erano interrotte. Alle dieci arrivarono i repubblichini. La gente si rinchiuse nelle case, ma i repubblichini vi entrarono ugualmente a domandare, inquisire, frugare, perquisire. Uno scemo disse che il parroco era amico dei partigiani, che li aveva visti frequentare la canonica. I repubblichini incattiviti si sfogarono sul parroco. Lo presero, lo picchiarono e se ne andarono con lui, senza che la madre neppure potesse dargli la biancheria di ricambio. Tutte queste cose erano avvenute a settembre. Trascorso l’inverno rabberciarono il ponte. E i partigiani lo scassarono altre due volte. A marzo giunse la notizia dalla Germania che il parroco era morto.”.

Il cardinale di Genova, Pietro Boetto, poiché il parroco era stato dato ormai per morto, decise che ci volevano funerali solenni per ricordare questo prete generoso e coraggioso che non aveva esitato a sacrificarsi per salvare la sua parrocchia. Funerali cui parteciparono  i vertici della chiesa genovese.
Ancora dai Diari di Taviani: ““E c’era tutta la gente di Aggio, gli abitanti di sempre e gli sfollati di città. I rintocchi delle campane risuonarono a lutto nella valle del Bisagno. Trascorse la primavera, venne la Liberazione, arrivò l’estate. Sul finire di giugno un nuovo scampanio richiamò su Aggio l’attenzione della Valle. E tornarono alla pieve l’arciprete di San Siro, i  parroci di San Cosimo, di San Martino, di San Pietro di Fontanegli, dagli arcipreti di Bavari e di San Giacomo di Molassana. Tornò anche il rettore del Santuario delle Tre Fontane. Suonavano a festa le campane. Perché, di buon mattino, il parroco era ricomparso a piedi sulla strada del ponte scassato; e la gente gli era andata incontro, l’aveva seguito fin sul sagrato, dove la madre, uscendo dalla canonica lo vide e svenì: stette male per tre giorni. Ma intanto il sacrestano si era già attaccato alle corde delle campane. Per fare sapere a tutti che il parroco era risuscitato”.
Don Ricchini era nato a Bolzaneto nel 1910 e nel 1933 era stato ordinato sacerdote e nominato parroco di Aggio pochi anni dopo nel 1938. Fu reintegrato nell’incarico e restò nel suo paese fino alla morte avvenuta nel 1986.

 

(Crediti foto: Pietre della memoria)