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I voti centristi saranno decisivi per qualsiasi esito
5 minuti e 50 secondi di lettura
di Stefano Rissetto

Si voterà a Roma, ma la decisione sul Quirinale passerà anche da Genova. Pochi dei protagonisti annunciati del voto, innanzitutto, possono giocare in proprio: Di Maio, Salvini, Renzi e la Meloni non hanno ancora cinquant’anni, boa già superata sia da Conte che da Letta, a suo tempo più giovane ministro della storia repubblicana, ma i due ex presidenti del Consiglio non hanno opportunità dirette. A quota 53 anni sta Toti, grande elettore di provenienza regionale ma dal protagonismo nazionale che potrebbe strutturarsi in via definitiva proprio in questa fase. Che porterà, quasi certamente, a un eletto esterno al Parlamento in seduta comune.

Letta sostiene che serve un presidente non di parte, eletto con il massimo di condivisione, anziché una designazione con 505 voti a colpi di maggioranza al quarto scrutinio. Eppure Letta guida un partito, il PD, che alle due ultime presidenziali (bis di Napolitano a parte) aveva fatto esattamente così, imponendo un candidato del suo partito, eletto al quarto scrutinio: Napolitano con 543 voti, Mattarella con 665. E in entrambi i casi uno di questi voti era stato di Letta.

In particolare Napolitano era stato votato da un Parlamento spaccato in due, copia anastatica di un Paese altrettanto spaccato in due, col PD che si prendeva anche il Quirinale dopo Palazzo Chigi e facendo tale filotto sulle fondamenta di una maggioranza di governo basata sui parlamentari eletti all’estero e sui senatori a vita e, suprema ironia, con uno scarto elettorale numerico a vantaggio degli sconfitti. Se infatti guardiamo al numero di voti ottenuti, nel 2006 alla Camera in tutta Italia l'Unione aveva preso 24.755 voti in più della Casa della Libertà (19.002.598 contro 18.977.843), ma al Senato la CdL aveva preso 428.577 voti in più dell'Unione (17.153.978 contro 16.725.401). Quindi la parte d'Italia che si era dimostrata più forte di 403.822 voti rispetto all'altra si era trovata fuori da tutto: Quirinale (Napolitano), Palazzo Chigi (Prodi) e presidenze delle Camere (Marini e Bertinotti). Perciò non suonano troppo genuini gli appelli al massimo di condivisione da chi quando ha potuto aveva fatto da solo.

Il problema, o l’opportunità, è che stavolta nessuno può fare da solo. Se da una parte la candidatura - tra il Faustus di Marlowe e Dorian Gray - di Berlusconi sembra basarsi su un monicelliano dragaggio nel bar di Guerre Stellari del gruppo misto e dei sempre disponibili “responsabili” a cottimo, dall’altra si delegittima tale ipotesi “di parte” agitando: figure altrettanto di parte e quindi indigeste all’elettorato di campo avverso; la strumentale ma sempre popolare ipotesi della “donna”; la rielezione di Mattarella che, dietro le attestazioni di valore invero esagerate, a tutt’oggi sembra soprattutto la sola possibilità per non ammainare dal Colle la bandiera del PD.

Ecco perché la strada per il Quirinale potrebbe passare da Genova. Negli ultimi mesi, forse anche in funzione di questa scadenza, si è intensificata la diplomazia nella nebulosa neocentrista, con protagonisti appunto Toti e Renzi. Due figure in grado di esercitare nell’occasione sui propri parlamentari, rispetto a tutti gli altri capi partito, un controllo certamente più ferreo. Forse perché i “loro” parlamentari sono pochi. Pochi, ma potenzialmente decisivi: né Toti né Renzi hanno la forza algebrica per imporre un loro candidato, ma nello scenario presente, dove 60 grandi elettori fanno la differenza tra le due minoranze assolute, hanno quella per fermare ogni candidato altrui. E per risultare decisivi.

Tutto quindi porta fuori dall’aula dove si voterà. Se davvero la neodannunziana televendita di Sgarbi andasse a buon fine, tra gli altri effetti dell’evento Berlusconi, da presidente del CSM, si troverebbe a decidere le nomine dei suoi amati giudici. Altrimenti, lo scenario più accreditato porta all’attuale presidente del Consiglio: ipotesi però inedita e quindi prospettica verso scenari inesplorati, quali il cosiddetto “semipresidenzialismo di fatto” agitato dai nostalgici dell’uomo forte, tutti quadri costituzionalmente impraticabili.

Già, la Costituzione. La grande dimenticata, sembrerebbe. Chiunque sia eletto presidente, tra un anno perderà legittimazione perché le Camere cambieranno fisionomia, grazie alla riforma di matrice pentastellata patita dal PD come prezzo per il ritorno al governo nel Conte II e il relativo irragionevole taglio lineare di oltre un terzo degli eletti. Una riforma demagogica che, come tutte le iniziative demagogiche farà più danni dei presunti benefici, talmente insensata da far apparire perfetta al confronto l’altra riforma che perfetta non era, ovvero il superamento del bicameralismo perfetto che in realtà era l’astuto ma non troppo disegno di Renzi per perpetuarsi al potere secondo tempi caucasici.

Ecco, Renzi. Sette anni fa commise uno di quegli autogol di cui è costellata la storia politica italiana degli ultimi trent’anni, come quelli di Bossi a fine ’94 e di Fini in conclusione del decennio successivo. Tutti e tre gli autogol, guarda caso, hanno a che fare con Berlusconi. Se nei primi due casi la rottura unilaterale del patto elettorale di governo avrebbe comportato nell’immediato la caduta di due dei tre esecutivi del Cavaliere, ma a gioco non lunghissimo la fine delle carriere politiche degli eversori, da segretario del PD e presidente del Consiglio Renzi ruppe un’intesa che aveva come oggetto proprio il Quirinale. Dopo essersi accordato con il capo forzista su un nome condiviso, bruscamente impose Mattarella, che stava da poco alla Consulta ma era tutt’altro che il bonario nonnino delle agiografie correnti, ma uno dei politicanti più antiberlusconiani in circolazione tanto da essersi a suo tempo dimesso da ministro di un governo Andreotti, insieme con altri quattro esponenti della sinistra DC (Fracanzani, Martinazzoli, Misasi e Mannino), per via della cosiddetta “legge Mammì” interpretata come un favore a Berlusconi, allora - era il luglio 1990 - soltanto imprenditore televisivo e presidente del Milan.

Il senatore di Rignano è un eccellente tattico, forse il migliore su piazza, come dimostrano il ruolo imprescindibile svolto prima nell’ascesa e poi nella caduta del Conte II. Non può riferirsi solo a un difetto nella strategia la domanda, tuttora inevasa, su che cosa lo portò, sette anni fa, a giocarsi in successione presidenza del Consiglio e segreteria del partito, per aver voluto rompere con Berlusconi sul nome concordato per il Quirinale.

La risposta la sa solo Renzi. Che potrebbe adesso fare, forte dei suoi voti decisivi al pari di quelli di Toti, un rovesciamento di scacchiera come quello operato prima facendo nascere e poi facendo cadere il governo giallorosso. Se Berlusconi non riuscisse a portare in fondo il suo progetto, ma da uno che da editore stampò per prima cosa l’”Utopia” di Thomas More c’è da aspettarsi di tutto, nessun candidato tra quelli finora circolati sarebbe migliore di quello bocciato da Renzi sette anni fa.  Professore di diritto e statista di prestigio internazionale, una serie infinita di incarichi istituzionali di altissimo livello fino all’attuale ruolo di giudice costituzionale, lo stesso ricoperto da Mattarella al momento della nomina. Non sarebbe un ritorno al futuro, ma la riparazione di un errore. E la scelta di un eccellente capo dello Stato. Tutto sommato, lo stesso Berlusconi sette anni fa avrebbe voluto alla presidenza della Repubblica l’uomo a cui oggi gli sarebbe difficile dire no: il professor Giuliano Amato.