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di Eva Perasso

Le ali di Manuel sono attaccate al muraglione che costeggia l'Aurelia, e dopo il tramonto se passate di lì, in quel tratto tra Sori e Pieve, pure si illuminano grazie a lucine intermittenti. Sopra di loro campeggia un casco da motociclista e accanto con bomboletta spray blu c'è quella scritta che ogni giorno vedo e leggo e rileggo: "Non saprete mai perché lo facciamo".

Manuel non c'è più. Era l'alba del 22 aprile di quest'anno, quando ebbe quel terribile incidente in moto mentre rincasava verso l'abitazione della mamma. Lui arrivava da Genova. Forse - dicono le cronache - aveva aiutato al lavoro il padre nella notte, in un locale del centro levante. Manuel si è scontrato con un'auto proveniente da Recco. Lo schianto, la moto che vola. Il decesso purtroppo è immediato. E le ali di Manuel... Volano via.

Aveva 21 anni Manuel. E io quella mattina del 22 aprile - era un sabato - sono corsa lì. Non era un giorno di lavoro ma abito vicino, era la sola cosa che qualunque collega avrebbe fatto. Succede che ci catapultiamo quando possiamo a testimoniare. Così nascono le notizie, ma inutile spiegarlo: spesso capita di trovarsi lì perché finiscono le vite.

Erano passate le sette di mattina quando sono arrivata e Manuel era ancora a terra, ricoperto da un telo blu elettrico. Protetto da un cordone di carabinieri, personale medico, che ne gestiva i primi momenti del post mortem.

Sono passate le settimane e ogni giorno o quasi ho percorso quel tratto di Aurelia, anche più volte, anche in orari diversi, a piedi e in auto. Il palo segnaletico accanto al punto dello scontro piano piano si è arricchito di caschi appesi, lasciati dagli amici e dalle amiche. Sono arrivate le ali, sempre più grandi. Composte da margherite, girasoli, fiori azzurri, c'è un cuore rosso e blu che pende. La sua foto sorridente. Le luci. Le scritte. C'è un coro di amore per lui.

Ogni tanto passando scorgo qualche ragazzo, o qualche ragazza, sono fermi in piedi a guardare quella piccola opera d'arte nata dal dolore. C'è chi accarezza le ali. Chi rinverdisce le scritte, sistema i caschi. Ogni tanto arriva una signora con gli occhiali. Forse ha la mia età. Tante volte avrei voluto inchiodare e scendere per chiederle chi fosse, per darle un abbraccio. Manuel aveva 21 anni, ed era figlio suo e figlio mio, era figlio nostro. Era il figlio del padre Alladin che sui social continua a ricordarlo e piangerlo in un atto di elaborazione del lutto collettivo che ci siamo abituati a vivere e condividere.

Ma Manuel per la cronaca era il morto 'N' dell'anno per un incidente stradale a Genova. Quel numero che corriamo ad aggiornare ogni volta che riaccade. Con noi gli operatori del 118, chi arriva in ambulanza e automedica, chi accoglie situazioni disperate al pronto soccorso, le forze dell'ordine, chi ha l'ingrato compito di chiudere loro gli occhi.

Finiamo - tutti - per ricordare ma dimenticare insieme. E' la triste iperbole e la tragedia del nostro lavoro. Smettiamo presto di elaborare quel che abbiamo visto, perché la nostra professione ci pone davanti un nuovo caso, un nuovo incidente, una nuova tragedia.

Ecco a cosa penso quando passo di lì. A come avessi rischiato di dimenticare rapidamente la sua vita. Se non ci fossero quelle bellissime ali attaccate al muro, ogni giorno, a ricordarmi di lui. "Non saprete mai perché lo facciamo", scrivono gli amici. Un po', quando abbiamo tempo di soffermarci, arriviamo a capirlo anche noi.

(in ricordo di Manuel, morto sei mesi fa, e delle sue bellissime ali)