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di Franco Manzitti

GENOVA - La prima volta non si scorda mai e neppure quelle dopo, una per una. Nel 1970 erano stati “solo” due giorni di pioggia continua, ininterrotta, muri d’acqua. Cosa poteva succedere? Non lo immaginavamo neppure. E magari il famoso colonnello Edmondo Bernacca non ci aveva ancora avvertito.

Fu la catastrofe, con 43 morti e il Bisagno che arrivava ovunque, perfino in corso Italia. Fu, fango, morte e distruzioni e tanto lavoro dei ragazzi della mia generazione a spalare ovunque per giorni, settimane. Genova alzò la testa da quel disastro, con silenzio e determinazione. Avevamo l’esempio del 1966 a Firenze. Anche là eravamo andati a spalare, ma non ci passava per la testa che sarebbe successo anche a Genova. 

Nella notte fuori dagli argini il Leira e il Cerusa a Voltri e alle due del pomeriggio il Bisagno, grande e maestoso era dilagato, come un lago invadendo perfino le rotative de “IL Secolo XIX” in fondo a via De Amicis.

Da allora le alluvioni, il disastro dal cielo, dai torrenti secchi che diventavano fiumi amazzonici sono stati l’allarme continuo dei nostri autunni, per decenni, fino a oggi.

Non esistevano le previsioni, poi diventate così precise, non esistevano allerte, i colori, la gradazione del pericolo, la protezione civile.

E le frustate erano violente e durissime, ovunque sul territorio: sembrava una condanna. Ricordo quella povera donna morta nel caveau di una banca nel centro storico, intrappolata mentre l’acqua aveva invaso i caruggi. E quella nonna e quel bimbo morti nella casa sciaguratamente costruita nel greto della Sturla. E quella ragazza schiacciata dall’acqua sulla collina di Prà tra il cemento e le auto posteggiate ovunque.

Non sempre, non tutti gli anni, ma con cadenze frequenti. tra i primi di ottobre e quelli di novembre, il cataclisma arrivava. Nel 1992 il Bisagno uscì di nuovo e seminò la distruzione a Borgo Incrociati, uno dei luoghi destinati a finire sommersi dal fango, nel 1993 uscirono dagli argini non solo il Bisagno, ma il Leira, lo Sturla, il Nervi e tutti i rii del Ponente. La città fu tagliata in due, tutto interrotto, non si poteva andare neppure a Pegli dal centro, chiuse ferrovia, autostrada, strade.

Per sapere cosa era successo a Voltri al giornale chiedemmo aiuto a Milano e un inviato arrivò a contare i danni scendendo sulla A26.

Il Bisagno non reggeva, il suo percorso deviato dall’urbanizzazione, la sua copertura con l’imboccatura troppo stretta, lo portavano a esondare, gonfio, di fango, di tutto quello che si trascinava dietro.

Pioveva maledettamente, ma non c’erano analisi previsionali e neppure dopo, altro che celle temporalesche,  studio sui temporali rigeneranti, l’Arpal era di là da venire. Chi avrebbe potuto immaginare che un giorno ci sarebbe stato un sistema per chiudere le scuole?

Poi lentamente, e soprattutto dopo il 2014 dei sei morti per colpa del Fereggiano, l’altro killer sempre armato dal diluvio improvviso, tutto ha incominciato a cambiare. Non solo la ricerca dei responsabili, non solo il processo al dissesto idrogeologico, al saccheggio del territorio, al ritardo nel costruire gli scolmatori, quello dello stesso Fereggiano, iniziato e poi irresponsabilmente fermato per via giudiziaria.

Qualcuno ha pagato caro, anche troppo come Marta Vincenzi, il sindaco parafulmine di ogni responsabilità, la prima a rispondere di un disastro ambientale in tutta Italia con il processo, la condanna durissima, l’estirpazione dalla vita politica-pubblica.

Un sistema di allarme è stato montato anche con precisione, con il perfezionamento della Protezione Civile, quando prima l’unica contromisura erano i vigili urbani e quelli del fuoco.

Ma ha continuato a piovere e il clima cambiato così rapidamente ha aggiunto le catastrofi a quelle dell’acqua dal cielo, le tempeste di vento, le mareggiate ciclopiche come quella del 28 ottobre 2018, i tornado, i cicloni mediterranei, che non hanno neppure i nomi simpatici di quelli atlantici che si vedevano al cinema e alla televisione.

Ora siamo attrezzati, abbiamo le armi per resistere, prevedere, avvertire, chiudere le scuole per esempio, che era stata la mossa non compiuta dalla giunta Vincenzi.

Grazie alle “dirette “ di Primocanale da anni seguiamo minuto per minuto gli eventi, segnalando, avvertendo, suonando l’allarme, resocontando, un lavoro essenziale, un grande servizio pubblico, mai riconosciuto come tale, se non dalla popolazione.

Seguiamo gli eventi giorni prima che tutto si scateni.

Ma possiamo chiederci, noi genovesi e liguri, per decenni il territorio più colpito per la nostra configurazione geografica (ora tocca a tutti, quasi indistintamente da Nord a Sud, isole comprese come dimostra la Sardegna che ha pagato molto) se abbiamo fatto tutto, se si può fare di più?

Ce lo chiediamo dopo l’ultima allerta arancione, che ci ha messo alla prova, colpendo ma per fortuna senza danni, mentre la  vicina Costa Azzurra è stata devastata.

Ce lo chiediamo di fronte a svolte climatiche impressionanti, con il nostro mare caldo a 23 gradi a fine ottobre, con un’estate infinita, con una siccità oramai permanente di fiumi secchi, di neve sparita, di ghiacciai che si estinguono.

Il Fereggiano è salvo grazie allo scolmatore in funzione oramai da più di un anno. Il Bisagno con la copertura rifatta, anche se in tempi biblici, aspetta, invece, la sua deviazione i cui lavori sono finalmente ripresi.

Ma il resto di questa città, che in tanti quartieri è come un toboga di cemento, nelle sue colline costruite tombando i corsi d’acqua, abbandonando al loro destino le colline prima saccheggiate dalla speculazione edilizia e non più sorvegliate, dove il cemento non è arrivato? Bisogna alzare la guardia non solo pregando che la perturbazione osservato speciale, il “fronte” ciclonico, le celle assassine, picchino altrove.

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