Vai all'articolo sul sito completo

Commenti

6 minuti e 18 secondi di lettura
di Mario Paternostro

Due anni fa alla fine dell’intervista che gli avevo fatto per presentare l’emozionante libro su Guido Rossa, lo storico Sergio Luzzatto, genovese, docente nell’Università del Connecticut, mi raccontò che stava lavorando a una storia delle Brigate Rosse. Immane idea, pensai, ancora mai realizzata nonostante molti importanti libri sugli “anni di piombo”. Quando, poi, aggiunse che voleva raccontarla seguendo le tracce della sconosciuta vita di Riccardo Dura, il misterioso capo della colonna genovese, colui che uccise Rossa accasciato nella sua auto in via Fracchia ferito alle gambe da un altro terrorista, decidendo così su due piedi la condanna a morte del sindacalista, pensai che sarebbe stata un’operazione impossibile e molto rischiosa. Dura era stato descritto, raccontato, identificato molto poco e sempre come lo spietato assassino che aveva ucciso l’operaio comunista, l’eroe unanimemente riconosciuto, con una sua fredda e inspiegabile scelta criminale. Sergio Luzzatto aveva da raccontare un personaggio diverso, e per questo, secondo me, era una idea molto molto rischiosa. Diverso perché ignoto alla città che in quei dieci anni di terrore aveva costruito il panorama del brigatismo locale e nazionale. Un brigatismo locale che aveva assunto ahimè un ruolo nazionale, sfiorando addirittura la prigionia di Moro.

Ora il libro è uscito. “Dolore e furore. La storia delle Brigate rosse”, edito da Einaudi. Oltre settecento pagine, con la prima, grande, straordinaria storia dell’organizzazione terroristica, con Genova in prima linea, la solita “città laboratorio” di tutto, come piace spesso scrivere a noi cronisti. Qui sono nate le Br, qui dai movimenti post-resistenziali e anti-golpisti di piazzale Adriatico, qui con i rapimenti per autofinanziarsi, di Sergio Gadolla o di Piero Costa, qui dove hanno “alzato il tiro con l’omicidio del giudice Coco e della sua scorta, qui dove hanno addirittura ucciso un “compagno”. E che compagno! Luzzatto due anni fa ha raccontato Rossa fuori dalla solita narrazione: un comunista convinto, leale, quello che indica e denuncia il compagno di fabbrica che diffonde i volantini brigatisti nei reparti. Ha presentato Guido che scala le vette più difficili sulle Alpi e non solo, coraggioso al limite della spavalderia. Ha ipotizzato che i due colpi di morte potessero essere stati anche una reazione furiosa, magari a una risposta spavalda del ferito, accasciato nella sua 850, ma non vinto.

Oggi lo storico genovese allarga il campo di studio enormemente. Ha ragione Gad Lerner che in quegli anni, fine ’70, inizi ’80 era un giovane cronista del “Lavoro”. Scrive Lerner su “Il Fatto quotidiano”: “Trovo che il libro di Sergio Luzzatto sia un’opera pressoché definitiva”.

E’ davvero definitiva.

Che parte da una lettera dell’ottobre 1970, scritta alla mamma da un ragazzo ventenne, siciliano sradicato, cresciuto a Genova. “Si chiama Riccardo Dura e da qualche mese si trova sotto le armi”. Marinaio. Una lettera di otto pagine di scuse e anche di accuse, perché si sente già un fallito e ritiene la madre possessiva e autoritaria la colpevole di tutto questo. O quasi.

Non ci sono in mezzo discorsi politici. Niente. Ma è l’inizio della storia di una vita rovinata dalla solitudine, dalla violenza del manicomio, dall’internamento sulla nave-scuola Garaventa, fino al 1975 quando “avrebbe saltato il fosso della clandestinità e della lotta armata” e “nel buio di un mattino d’inverno, il 24 gennaio 1979, si sarebbe ritrovato insieme a un compagno dell’organizzazione sovversiva, Vincenzo Guagliardo, in una via del quartiere di Oregina…..deciso a punire un sindacalista della Cgil e militante del Pci, l’operaio Guido Rossa, per avere denunciato un collega dell’Italsider quale distributore in fabbrica di volantini brigatisti”.

L’incredibile storia finirà quando tra i terroristi freddati dagli uomini del generale Dalla Chiesa nell’operazione militare di via Fracchia terroristi che avranno tutti, subito, un nome e un cognome: Anna Maria Ludmann, Lorenzo Betassa, Piero Panciarelli, ce n’è un quarto assolutamente sconosciuto. Il quarto ammazzato no, non ha nome. Quella tremenda foto pubblicata anni dopo dal “Corriere Mercantile” dei quattro cadaveri per terra in mutande e canottiera, rivela solo che il “quarto” è quello in slip, con il volto piegato sul pavimento e i capelli ricci con un colpo secco alla testa. Nessuno lo conosce. Nessuno sa chi sia. Saranno le stesse Brigate Rosse alcuni giorni dopo il blitz a rivelare la sua identità con un linguaggio tra il patetico e il sindacale: è “Roberto” il capo della colonna genovese. Roberto chi? Nessuno sa qualcosa.

Brancolano nel buio gli inquirenti, ma brancolano anche i giornalisti esperti. Ecco che si parla di “Terrorista senza nome”. Il cadavere di “Roberto” “ormai morto da cinque giorni e con i tessuti dilatatati, giace all’obitorio. Nessuno rivendica la sua conoscenza. Poi un compagno lo individuerà. Militava in Lotta Continua “l’aveva incontrato ai cancelli dell’Italsider sette o otto anni prima. Sì, era sicuramente Dura, non poteva essere che Dura, l’operaio marittimo chiamato Roberto nel volantino di cordoglio delle Brigate rosse”.

Anonimo da vivo e anonimo da morto.

Così che Sergio Luzzatto con una bravura unica, raccontando la “vita e la morte di un Anonimo” svela la ampia storia delle Brigate Rosse, partendo dal 1969. Con fatti, luoghi, personaggi. Come il Levante genovese, la città operaia, il D’Oria e il Colombo, il manicomio di Quarto e San Martino. Come i professori universitari di Lettere, o il chirurgo di San Martino o l’avvocato penalista, così vicini alla lotta armata. Promotori, ideatori, fiancheggiatori, arruolatori.

I fondatori insomma della colonna genovese che sarà “consacrata” dal capo assoluto Mario Moretti.

Dietro, in mezzo o davanti c’è Genova. Dieci anni di “gambizzati” neologismo orrendo, volantini, rivendicazioni, morti, poliziotti e carabinieri di scorta cadaveri a fianco dei loro “tutelati”. Tanta politica spesso confusa, i grandi fatti nazionali come il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, processi, pentimenti fatali, irriducibili posizioni, blitz militari mai del tutto chiariti.

Un grande scrittore, Antonio Tabucchi, per anni docente a Genova di Lingua e letteratura portoghese – scrive Luzzatto – è rimasto talmente colpito dalla vicenda del “quarto ucciso” nella strage di via Fracchia da costruirci sopra la trama di un romanzo breve “Il filo dell’orizzonte” che ruota intorno “alla figura di un morto senza nome, un terrorista chiuso in una cella frigorifera dell’obitorio di una città essa pure senza nome, ma che visibilmente è Genova”.

Il giorno della tumulazione al cimitero di Staglieno di Riccardo Dura c’è solo la madre, Celestina Di Leo. “E’ l’alba nel campo comune n.46, fila 20, fossa 24. Il padre ha preferito non esserci”.

Per qualche settimana ancora, in quell’aprile del 1980, la stampa genovese si occupa di Celestina Di Leo. Non l’unica mater dolorosa, nella città insanguinata. Il martedì 22, al mercato rionale di via Anzani a Sampierdarena, una venditrice ambulante è vestita a lutto. Vende camicette, abiti, stoffe. Una donna si avvicina alla sua bancarella. Nota l’abito nero, vede i segni del dolore sul volto della venditrice e le chiede: <Signora , come mai è in lutto? Chi le è mancato? Mio figlio, i carabinieri me l’hanno ammazzato. La donna sussulta, il cuore le batte forte. Anch’io ho perso mio figlio. Era un carabiniere, me l’hanno ammazzato le Brigate rosse. Le due madri disperate si guardano, si abbracciano, si baciano tra le lacrime>. Poi la madre di Mario Tosa, il carabiniere trucidato con Vittorio Battaglini, il 21 novembre in un bar a centro metri da via Anzani deve allontanarsi, non si sente bene, l’emozione è stata troppo forte. Nel banco impietrita rimane Celestina Di Leo Dura. Impietrita e inconsapevole che ad ammazzare il carabiniere era stato suo figlio”. Lo aveva raccontato Anna Pisani sul Decimonono il 23 aprile 1980.

Ha ragione Gad Lerner, “Dolore e furore” è davvero l’opera definitiva che attendevamo.