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Il libro postumo dello scrittore e giornalista scomparso a febbraio, un singolare diario culturale e un atto di amore per Genova. Intanto la sua straordinaria biblioteca è ancora senza casa…
4 minuti e 42 secondi di lettura
di Mario Paternostro

Giuseppe, Pippo, Marcenaro, prima di andarsene a febbraio di quest’anno, ha lasciato un libro bellissimo che è la sintesi della sua vita e della sua cultura. Si intitola “Sciarada”, dove questa parola vuol dire conversazione, lunga chiacchierata come quelle che si facevano nella sua storica casa di salita Santa Brigida, tra le lettere di Montale e il ricordo dell’albergo dove abitava Strindberg o l’angolo tragico dove la Br uccisero il procuratore Coco, dove Pippo apriva quei cassetti così capienti dai quali uscivano piccoli tesori letterari. E migliaia di libri che ancora cercano casa nella città dove sono vissuti per decenni, custoditi e amati, offerti e radiografati. Pippo se ne è andato con il cruccio di questa casa per i suoi libri. Una casa che deve diventare il Laboratorio del ‘900, una casa che nonostante molte parole non è stata ancora trovata. Che vergogna….

Così ecco questa “Sciarada”, edita da Il Saggiatore che non è solo la sintesi della cultura enorme di un intellettuale originalissimo, ma anche il diario di Marcenaro, dall’infanzia in Albaro, al soggiorno romano, alle visite nella villetta arenzanese di Lucia Rodocanachi.

Col pretesto di inseguire il fantasma di Roberto “Bobi” Bazlen, critico letterario triestino, scopritore di talenti letterari, cercatore di scrittori senza aver scritto un libro, Pippo racconta la sua vita e le sue affabulanti manie. Perché d’accordo che “sciarada” vuol dire conversazione, ma anche problema situazione difficile e inestricabile, ”giuoco generico e allusivo in cui si può scovare la parola smarrita”.

Cominciando proprio in viale Quarnaro dove era nato.

“Per andare in centro con l’elettrico numero 42, dicevano Vado a Genova. Albaro era un mondo a sé, anche fisicamente. De resto, della città di cui faceva parte, separato da un buio tunnel, entro cui il tram passava, era come se la sferragliante corsa sotterranea fosse un transito dalla realtà all’illusione”.

Così ecco che comprende che la sua vita è una proiezione di specchi “che si sono fatti più labili e mutevoli con il progredire dell’età. Superati i bagliori degli anni. Non deve trattarsi né di un morbo pernicioso, né di un groviglione dell’anima. Semmai una metafora dentro a una metafora, dovuta alla mia forsennata passione di leggere, vissuta in parallelo alla successione dei tempi, dall’infanzia alla giovinezza e oltre”.

Capisce Pippo che non gli rimane altro che “fuggire dentro ai libri: vivere altri tempi, altri mondi, altre dimensioni . Una competizione tra me stesso e un mio ipotetico doppio”. Vita che ha percorso con questo intelligente turbamento nei suoi libri, nelle sue mostre, nelle sue battaglie.

Pippo un po’ Tom Sawyer, il pomeriggio, per diventare Achille con “l’invitta armatura” o quel gran figo di Paride, o l’astuto Ulisse, giungendo alla fine sempre con un “inestricabile enigma: se io sia persona o personaggio e se per un refuso della sorte mi trovassi davanti alla possibilità di svelare il mistero ho una risposta pronta. Estrema come un epitaffio: Preferirei di no”.

Così giunge a Roma spinto dal “fremito per libri sconosciuti”. “A Roma appresi che per capire bisogna imparare la lingua delle cose”.
Con l’originalità dei suoi libri, delle sue mostre, delle sue “sciarade” fortunatamente salvate e di qualche intervista, Marcenaro ha dimostrato di avere imparato benissimo questa lingua perché le “cose” nelle sue mani sono diventate vere folgorazioni, sorprendenti letture, impensabili traduzioni.
Come la visita a Roma col suo amico Alberto, a “sobbrillare” percorrendo “labirintiche biblioteche”, mentre l’amico romano lo inizia a un tipo di esercizio. “Non lasciarsi mai sfuggire una coincidenza”.

L’arte della coincidenza che diventa occasione di un nuovo viaggio diverso da quello che si pensava prima è una caratteristica della cultura di Pippo. Una città per di più nel buio non è solo strade, piazze o vicoli, ma le sue pietre emulsionano “un fluido magico…..si svelano i segreti, ritornano i morti, le presenze accompagnano con i loro lievi passi” e fantastica definizione: “L’inaspettata brezza, come un improvviso velo, recò memoria di memorie”.

Memoria di memorie. Che Giuseppe Marcenaro ancora avrebbe voluto distillarci. Ma, rivela l’amico Piero Boragina custode e strenuo difensore di questa cultura, nei cassetti e dai cassetti riaperti di Pippo esce molto materiale, forse addirittura altre pagine pronte. Insieme alle sue fotografie linguistiche: “un segaligno senegalese carbonato ramazza adunando avanzi a piede del marciapiede….” Oppure “mi è impossibile mancandomi quelle pagine ripercorrere i perduti passi in confronto con la memoria” o ancora un’analisi della parola genovesissima, maniman. “L’emblema della prudenza, una parola di tono arcano, chiude più porte di quante sia riuscito a aprirne abracadabra. Maniman più che parola è concetto…..arriva subito al centro. Innanzitutto è un invito alla cautela….attraversa la filosofia del genovese. E’ un avvertimento prudente, un invito all’immobilità, alla non scelta. Maniman è un’implosione lessicale, assomiglia a un serpente che per rendersi essenziale, comincia a divorarsi dalla coda.”. Infine la sentenza. “Maniman è un sontuoso introflesso” e come un’idra si riproduce!.

E Bobi Bazlen che fine ha fatto? Marcenaro lo insegue , pagina dopo pagina. E’ “l’originale autore di nessun libro, formidabile lettore e levatrice di talenti, suggeritore di opere pescate nei segreti meandri delle più esclusive carbonerie letterarie…..da tempo inseguivo Bazlen”.
E chi poteva essere più adatto a inseguire “uno scrittore senza libri, un rompicapo esistenziale. Un fantasma irrisolto. Autore semmai di una nuvola di lettere a briglia sciolta, erudite e gaglioffe, inviate anche a femmine curiose. Una superciliosa giostra di ciarle” se non Pippo Marcenaro?

Che così dichiara il suo amore mai completamente rivelato per Genova.

“Amare Genova deve costare moltissimo. Infatti, in dialetto amare non esiste. Si trova ti voglio bene che, come ognuno sa , ha un approccio più prudente. Ti voglio bene è meno impegnativo…..maniman”.