Uno dei mali della contemporaneità, dell'epoca dei social network e delle idee che si contano sui like, è il rifiuto della complessità: in un mondo in cui la soglia d'attenzione non supera i cinque secondi, non c'è più alcuno spazio per il ragionamento; quello che conta è lo slogan. In un simile contesto anche questo editoriale non ha alcun senso, poiché pochissimi lo leggeranno e qualcuno, forse, lo commenterà accontentandosi delle tre righe della didascalia (che, peraltro, non sceglierò io).
Eppure è solo attraverso l'analisi che si comprendono i fenomeni complessi, o per lo meno che si può sperare di comprenderli. Aspetti enormi, come l'impatto dei fenomeni storici sul presente, non si possono liquidare con uno slogan, una frase, un coro. Non funziona così.
E invece in questi giorni nei quali ricordiamo fatti di grande rilevanza come il nazifascismo, la seconda guerra mondiale, la shoah, ci scopriamo vittime di una totale incapacità di analisi.
Partiamo dal tema che ci fa discutere ogni 25 aprile: quella di ieri può essere la festa unitaria di tutto il Paese? Chi risponde con un Si deciso o con un No, semplicemente non riflette. Perché in casi simili sono corrette entrambe le risposte.
Perché si. Perché se oggi viviamo in un Paese libero lo dobbiamo anche alla lotta partigiana che ha cambiato le sorti dell'Italia. Lo ha fatto in senso militare, poiché se è certamente vero che gli angloamericani ci avrebbero liberati comunque, è indiscutibile che il filo da torcere che i partigiani diedero ai tedeschi fu di enorme aiuto per le truppe alleate. E lo ha fatto in senso politico, perché se Alcide De Gasperi, alla conferenza di pace di Parigi, è stato accolto “con il senso della personale cortesia” di tutti gli intervenuti è perché era chiaro al mondo che la nuova Italia che si presentava a quell'appuntamento storico aveva bruciato i ponti con il suo passato fascista e aveva dato il sangue per riuscirci.
Però questo non basta a stimolare l'intero Paese a partecipare alle manifestazioni del 25 aprile perché, e qui si torna alla complessità, c'è una certa differenza tra la valutazione di un fatto storico e la sua celebrazione. Un conto è ciò che si pensa della Resistenza, altra cosa è l'opinione sulla festa della Resistenza. Che sono due cose diverse.
Perché no. Ed è qui che si annidano le ragioni che dividono il Paese. Perché se l'Italia del 1946 capì subito, e lo capì Togliatti, che un'amnistia (passata alla storia proprio con il nome del leader comunista) era indispensabile per riportare la nazione alla pacifica convivenza tra parti in lotta, quella del 2024 non si dimostra altrettanto clemente. E così la piazza del 25 aprile diventa, più che il nostro 4 luglio, un luogo in cui i buoni marciano contro i cattivi, tenendoli lontani. Ma c'è di più. La piazza d'oggi, mistificando la realtà storica forse anche al di là delle stesse intenzioni degli organizzatori, è quella della sinistra contro la destra, trasformando la sinistra nell'unica depositaria dell'orgoglio partigiano. Per i cattolici, i liberali, gli azionisti, i monarchici, i soldati, i carabinieri che hanno combattuto contro gli invasori sembra non esserci alcuna traccia. E non solo non è giusto, mette anche a disagio.
Così come risulta divisiva l'assenza di una memoria condivisa sul ruolo giocato dagli americani nel nostro Paese, opinione sporcata dalla Guerra Fredda e dalle relazioni tra una parte significativa della piazza di ieri con l'Unione Sovietica.
E, come se non bastasse, oggi si litiga persino con gli ebrei, un tempo celebrati (doverosamente) come le vere vittime della follia razzista dei nazifascisti. Ma nell'assenza di complessità anche distinguere tra popolo ebraico e Stato di Israele, tra ebraismo e sionismo, tra antisemitismo e diritto di criticare l'uso della forza di Benjamin Netanyahu è diventato impossibile. Il mondo d'oggi accetta solo il bianco o il nero, senza alcuna gradazione.
Io ieri ero in piazza Matteotti per la festa del 25 aprile. Ma, in definitiva, non credo di essere più antifascista di chi ha deciso di non venire. Di chi prova fastidio per i fischi a Toti e Bucci (sono forse fascisti?), di chi non vuole partecipare a un marcia politica di una parte contro un'altra.
A quasi 80 anni dalla fine del fascismo in Italia è forse giunto il momento di fare una complessiva autocritica e rendere finalmente questa festa un'occasione di orgoglio nazionale. Ma per riuscirci ci vorrebbe la voglia di affrontare un tema complesso in tutte le sue molteplici sfaccettature e quella voglia, purtroppo, non c'è più.