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di Luigi Leone

Cinquant’anni. Esattamente il prossimo Primo Giugno. Tanto è trascorso da quando la formazione Berretti dell’Imperia vinse il titolo di Campione d’Italia. Lo scudetto, conquistato battendo in finale la RomuleaLa categoria era quella che oggi verrebbe definita Next Gen. Cinquant’anni in passato era quasi l’intera esistenza delle persone. Oggi un simile lasso di tempo segna solo una tappa: generalmente si viaggia oltre gli ottanta per dire che uno è vecchio. Anzi, seguendo il dizionario del politicamente corretto, bisognerebbe dire diversamente giovane.

Comunque sia, molta acqua è passata sotto i ponti. E se stiamo al calcio, per quanto poi sia facile debordare in ciò che costituisce il quotidiano, non c’è tema di smentita: era davvero un’altra epoca. Lo testimoniano plasticamente i protagonisti di quella impresa: si sono radunati in un gruppo di whatsapp, si scrivono, si mandano messaggi vocali, coinvolgono altri nel ricordo della loro impresa.

In parole semplici, alimentano un romanticismo che oggi esiste solo raramente. Alcuni di quei giocatori hanno poi calcato palcoscenici importanti, si portano appresso esperienze felici in altre piazze. Eppure, quando il trofeo dello scudetto è stato prima ritrovato e poi esposto al Bar Piccardo, tradizionale ritrovo del tifo nerazzurro, la commozione è stata generale. Grondava dai messaggi sul gruppo.

Solo il rimpianto per i begli anni andati? Io ho fallito di quattro mesi l’appuntamento con quella piccola gloria: sono di fine agosto 1955 e invece la squadra era fatta di coloro che sono nati nel 1956 o dopo. C’erano, è vero, alcuni fuori quota, cioè atleti di un anno più vecchi: io ero forte, però non così tanto (c’era un omonimo, neanche mio parente) da poter essere uno dei chiamati. Eppure quello scudetto lo sento anche mio. A Imperia credo che la cosa valga per tutti. Tanto più che quelli erano gli anni della grande squadra del genovese Gigi Bodi e del presidentissimo Nicolò Temesio, notaio con la passione del calcio.

Ecco, la parola chiave è proprio questa: passione. Passione con giocatori che allora avevano l’ambizione di diventare delle bandiere. Oggi sono ha praticamente ammainate tutte. Il calcio di fatto ha smesso di essere uno sport per diventare business. Fateci caso: una qualificazione in Champions, con la ricaduta di denaro che ha, è ormai più importante di un titolo vinto. E poi: bandiere. Se l’offerta è giusta, non c’è più nessun giocatore incedibile.

E’ tutto così cambiato, che… Lo ricordate Rino Gattuso, milanista tutto d’un pezzo eppure adorato anche dai tifosi delle altre squadre? Quando si dimise, rinunciando al denaro del suo contratto e chiedendo solo che venissero pagati i suoi collaboratori, sembrò fare l’uovo con due rossi, come usa dire. Una volta, invece, era normale, normalissimo. E’ di quel calcio che ci sarebbe ancora bisogno, come l’aria che respiriamo.

Uno sport, non un affare da milioni. Uno sport per il quale piangere di gioia o di dolore. Uno sport dal tratto umano. L’Imperia che vinse il tricolore, aggiudicandosi il trofeo Dante Berretti, è lì a ricordarcelo. I giovani giocatori di allora oggi sono magari senza capelli, hanno la pancia più pronunciata e soffrono degli acciacchi provocati dagli anni che avanzano. Ma gli occhi sono ancora gonfi di lacrime e il cuore continua a battere forte.

Un luogo comune? È vero. Ma se questi concetti lo sono diventati è giusto chiedersi perché. E le risposte sono semplici. Per questo mi piace ricordare i nomi di coloro che regalarono un sogno ad una piccola città della provincia italiana: Enzo Canepa, Domenico Coscia e Enzo Martini portieri; Franco Mareri, Mario Leone, Alfredo Bencardino, Nico Caprile, Giancarlo Bolla, Francesco Ghigliazza, Antonio Roberto Vitassovich difensori; Ettore Gazzano, Pino Sabbatucci, Nicolino D’Errico, Giovanni Ottonello, Gianfranco Panizzi, Fausto Ranise, Corrado Navarra centrocampisti; Giovanni Bracco, Roberto Catroppa, Gianni Pittaluga, Francesco GaribboGegio Montanari, Danilo Graglia e Ivano Vecchio attaccanti. Il pool di allenatori era composto da Orlando Rao, Luciano Dagnino e Bruno Demaurizi. Tra i dirigenti, Ernesto Giorgi, Lino Roncallo Ercole Demoro e Bruno Cerruti. Cinquant’anni dopo, grazie a tutti loro.