Che da Torino alla nostra benedetta Riviera, sopratutto quella di Ponente, servano cinque ore di viaggio ce lo hanno improvvisamente svelato nel colmo di questa estate di molti malcontenti il sindaco di Torino Lo Russo e, insieme, Evelina Christillin, che non è solo la direttrice del Museo Egizio, dirigente sportiva ai massimi livelli, un personaggio consolidato del nostro star system, torinese, vicina alla famiglia Agnelli (era compagna di scuola di Margherita), impegnata in tante imprese dello sport nazionale e non solo, ben radicata anche in Liguria tra Camogli e Varigotti.
Cinque ore servono a raggiungere in aereo Lisbona dagli aeroporti di Torino e Milano, esattamente il tempo medio che i sabaudi oramai sono rassegnati a impiegare quando puntano le nostre coste liguri.
E i milanesi e i lombardi impiegano forse meno tempo, avendo il vantaggio di due soluzioni, non solo la A7 ma anche la A 26, mentre ai piemontesi tocca, se cercano una alternativa, scollinare il san Bernardino o qualche altro passo Appenninico o Alpino?
La domanda classica che ci si rivolge oggi tra viaggiatori, turisti, ma anche indigeni, al momento dell’arrivo è: “Quanto ci hai messo?” E spesso, se la risposta è quattro ore o tre ore e mezzo, c’è quasi un sospiro di sollievo.
Oramai da qualsiasi parte si giri la carta geografica e si individuino vie alternative la realtà conclamata è una sola: siamo isolati, sempre più isolati.
Il bollettino autostradale di luglio è un camposanto di incidenti e ritardi sulle autostrade e sulle ferrovie. In pochi anni la situazione è precipitata verticalmente e non solo dopo il crollo del Morandi. Oggi che per la sosta estiva i cantieri sono quasi tutti chiusi la musica non cambia perché, come abbiamo predicato per decenni qui e altrove nei mezzi di comunicazione, le autostrade e la ferrovia sono sempre quelli. Altro che “treni”velocetti”, Aurelie Bis, passanti autostradali, non è stato costruito e neppure progettato nulla.
La situazione dei collegamenti con un Riviera oramai “overturistizzata” è uguale a quella degli anni Settanta, oltre cinquanta anni fa. Quando il turismo aveva una dimensione totalmente diversa nei flussi e nei trasporti.
E già allora spesso le code erano epocali.
Non c’è barba di classe dirigente politica e imprenditoriale, di qualsiasi colore politico o estrazione, che abbia pensato qualcosa in cinquanta anni, sessanta lustri.
Quel raddoppio ferroviario, cui basterebbero 26 chilometri di linea tra Andora e Finale, è una barzelletta che non fa ridere più nessuno ed anzi dovrebbe umiliare sopratutto ministri, vice ministri, deputati, senatori, leader di qualche generazione, una dietro l’altra.
Non avevano capito quello che sarebbe successo? Non lo capiscono neppure ora che siamo alla canna del gas, quando i sindacalisti dell’autotrasporto minacciano di bloccate tutto in agosto contro le disastrose condizioni nelle quali sono costretti a percorrere le nostre autostrade, in particolare la A10,il calvario per definizione.
Viaggiate, viaggiate su questa autostrada costruita all’inizio degli anni Settanta, tutta ponti e gallerie, che la battezzarono l’autostrada “lastricata d’oro” tanto era costata. Ma se non ci fosse? Con sole due corsie che di più sarebbe stato impossibile.
Possono pure vantarsi oggi sindaci e pubblici amministratori che tanto i turisti arrivano lo stesso e alberghi, bad and breakfast, ristoranti, stabilimenti balneari sono comunque a tappo. Ma a quale prezzo?
Il nostro Portogallo, per usare l’espressione di Evelina Cristhillin, di questo passo una volta raggiunto, scoppia.
Non hanno pensato a nulla, mica solo ai trasporti. Impossibile posteggiare ovunque: i piccoli borghi sulla spiaggia sono soffocati da caterve di automobili, accatastate ovunque, e circolare in luglio e agosto è una specie di incubo, perché paesi come Alassio, Loano, Pietra Ligure, Borghetto Santo Spirito, si strozzano da soli con serpenti meccanizzati che cercano solo un posto dove fermarsi per poi raggiungere l’obiettivo del viaggio: la spiaggia che è già piena, dove i concessionari lottano ogni stagione con l’erosione che i cambiamenti climatici spingono in termini sempre più estremi. Spesso d’inverno quel gioiello della spiaggia di Alassio, chilometri di arenile pregiatissimo, non esiste più e chi abita a ridosso deve pensare a difendere dal mare che avanza portoni, porte, negozi, qualsiasi attività non solo di accoglienza e commerciale.
Insomma siamo isolati e assediati. Diventiamo una specie di isola, che almeno sfruttasse il mare per supplire ai carenti collegamenti terresti, stradali o ferroviari. A parte qualche servizio pubblico tra Genova e Portofino, San Fruttuoso e qualche giro per visitare il porto di Genova non esistono natanti di collegamento tra un punto e l’altro dell’arcobaleno ligure, che pure è una terra di marinai, armatori, velisti, gente di mare.
Nessun armatore o imprenditore si è mai sognato di investire in collegamenti turistici che colleghino i diversi punti della Liguria. Che pure si presterebbe con i gioielli disseminati lungo la costa e con le decine di porticcioli costruiti anche in eccesso, e non si sa bene perché, forse per cementificare ancora di più paesi che la speculazione edilizia del Dopoguerra e quella successiva del boom economico avevano già sconciato per conto suo.
Rapallizzazione è un termine inventato non a caso qua e si può applicare non certo solo a questa perla del Tigullio.
Siamo un “Portogallo” con molti problemi e molte soluzioni possibili di fronte all’invasione che, tra l’altro si perfeziona in questi giorni per “divampare” in agosto.
Gli statistici dicono che già oggi l’83 per cento della “capienza” ligure in termini di posti letto in hotel e B&b è prenotata.
Vuol dire che a condizione di raggiungerla, non con voli di cinque ore come per Lisbona, ma con code snervanti su autostrade collassate con pochissimi servizi, scarse corsie di emergenza, la Liguria è pronta per essere invasa.
Chi l’ha prescelta affronta con rassegnazione il viaggio, sapendo che impiega quel tempo e sa anche che probabilmente “atterrando” in Liguria non ascolterà nelle notti d’estate il canto del “fado”, storica nenia portoghese, ma probabilmente qualche mugugno genovese-ligure, un classico che non manca mai. Come le code.