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di Luigi Leone

E se stessero dalla medesima parte l’ex governatore ligure Giovanni Toti e i magistrati che lo hanno prima ristretto agli arresti domiciliari e poi costretto alle dimissioni? La domanda è meno paradossale di quanto appaia se si prendono per buone alcune tra le prime parole pronunciate proprio da Toti dopo la liberazione: “Non ce l’ho con i Procuratori della Repubblica, la responsabilità di quanto avvenuto è del legislatore”.

L’avvenuto in sé è semplice. Da una parte c’è l’ex presidente della Regione Liguria che prende denaro dall’imprenditore Aldo Spinelli, dichiarandolo regolarmente, e poi si occupa di questioni riguardanti lo stesso. Dall’altra ci sono i magistrati, secondo i quali l’allora governatore avrebbe potuto sì prendere i soldi per finanziare il suo movimento, però non si sarebbe dovuto occupare degli argomenti relativi al suo benefattore.

E se Toti ha insistito di non aver commesso nulla, i magistrati non solo lo hanno arrestato, ma fino alle dimissioni lo hanno pure tenuto ai domiciliari sostenendo che avrebbe potuto reiterare quello che essi ritengono un reato. Il segretario delle Camere Penali di Genova, Rinaldo Romanelli, ebbe a dire: “Se Toti avesse reiterato il reato, sapendo che per anni si è indagato su di lui, avrebbe dovuto occuparsene la psichiatria, non la magistratura!”.

E’ verissimo. Ma la medesima affermazione si potrebbe fare, per converso, a proposito dei magistrati: o le loro contestazioni poggiano su delle basi normative (delle prove diremo quando si conosceranno) o sono dei matti! E comunque: alzi la mano chi conosce un imprenditore che dà del denaro a un movimento politico senza aspettarsi nulla in cambio. Ma questo “in cambio” deve per forza bollarsi con il marchio d’infamia della corruzione?

Toti dice di no, che le cose si possono fare nell’interesse della collettività e non del singolo. I magistrati rispondono invece di sì. E’ in questa visione antitetica che, per paradosso ma non troppo, le parti stanno sulla medesima sponda. Ovviamente non si tratta di estendere l’immunità, che per i parlamentari ha una precisa origine e un campo definito di applicazione, bensì di fare chiarezza.

Si tratta, in parole povere, di abbandonare l’italica tendenza alla sublimazione dell’ipocrisia: no al finanziamento pubblico della politica, ma anche no al finanziamento dei privati se questi chiedono poi qualcosa. Siccome, come dicevo, non si conosce nessuno che in questo campo fa filantropia, la questione non è di lana caprina. E’ sostanziale.

Il che banalmente ci riconduce al problema dei problemi: come permettere alla politica di sostenere le sue non poche spese? Le risposte arrivate finora non si sono rivelate sufficienti. Soprattutto, come sostiene Toti, per una carenza normativa che proprio la vicenda di cui è protagonista si è incaricata di rivelare in tutta la sua drammaticità.

E i magistrati? Tacciono, ma sanno che pure per loro meno caos sarebbe utile. Altrimenti si troveranno sempre davanti un Sabino Cassese, non proprio un amante della destra post fascista, che autorevolmente, sul “caso Toti”, sulla vicenda ha richiamato la sentenza numero 230/2021 della Corte Costituzionale: “Non sarebbero bilanciati correttamente gli interessi in gioco, in particolare quello relativo al buon andamento dell’azione amministrativa (tutelato dall’articolo 97 della Costituzione) e quelli contrapposti (tutelati dagli articoli 48 e 51 della Costituzione) dell’eletto al mantenimento della carica e degli elettori alla continuazione della funzione da parte del cittadino da essi democraticamente scelto, nonché il principio di non colpevolezza sino alla condanna definitiva (articolo 27 della Costituzione)”. Non serve altro.