Un anno fa, in Argentina stava finendo la primavera. Il vecchio giocoliere era svanito ormai da tempo in uno specchio rotto e adesso era sul punto di compiere l'estremo incantesimo di raggiungersi. Triste, solitario y final: come Pantani in una stanza devastata nella casa delle rose la notte di San Valentino; come Mitri sulla via ferrata in un'alba rigata dal fischio di un'automotrice a nafta, perché i treni hanno qualcosa a che vedere col principio e con la fine.
"El Diez" aveva camminato sul filo tra la vita e la morte talmente tante volte che ormai per lui non faceva differenza. Aveva trasformato il pianeta in una platea, assorta in silenzio di fronte allo spettacolo del suo talento scaleno che batteva al ritmo di un cuore enorme e affaticato, al canto assente del cardillo addolorato.
Di cosa parliamo, quando parliamo di Diego? Della giovinezza in cenere di una generazione che lo aveva visto nascosto dal Flaco al Mondiale dei generali, malmenato da Gentile al Sarrià, ladro e artista sotto le stelle del Messico a trapanàr, polvere di una città di mare che il mare non bagna, i truci fischi italiani all'inno di un'Italia approdata oltre l'Atlantico, la faccia triste dell'America e poi la gamba e l'agonia. Per noi della razza di chi rimane a terra, testimoni oculari del primo e dell'ultimo gol in Italia, al San Paolo che ora è lui e a Marassi, il più sfacciato e fiammante degli avversari. La spada nel cuore di quel gol al novantesimo di una Roubaix del calcio anch'essa in autunno; lui malmostoso e piagnone nell'afa dello Zini, coi calzettoni rossi e la scritta di un dolciume sulla maglia bianca, ombrello rovesciato dal vento di Vierchowod che chiamava "uomo verde"; e poi la cerimonia degli addii, un saluto lungo undici metri allo Scudetto che come foglia morta volava via dalla sua maglia, verso quella dai quattro colori.
Ogni domenica a Marassi arrivavano olandesi, tedeschi, brasiliani, britannici, stelle del gran teatro del calcio italiano che era il più applaudito del mondo. Ed era lui il tenore. Eppure ogni anno, negli spogliatoi, avesse vinto o perso si disponeva - con l'intatta umiltà di un lazzaro felice, gli occhi scintillanti da sciuscià - al rito degli autografi, anche una ventina a volte, per i napoletani di Genova; ed io, che non gliene avrei mai chiesto uno per me, sarei stato come il muratore di Tonino Guerra, che aveva costruito mille e mille case per gli altri senza mai averne una propria.
Faceva anche miracoli. Paolo Sorrentino, che ebbe salva la vita andando a vederlo a Empoli scampando al monossido fatale ai genitori, torna al calcio da cui era partito e finalmente racconta se stesso attraverso di lui. Stavolta non è "L'uomo in più", è stata la mano di Dio, adesso. Quel Dio che progetta la frontiera e costruisce la ferrovia, che abbiamo creduto di veder baluginare anche nelle sue giocate, perché il calcio nasce come gioco, e che continuiamo a cercare tra ghiaccio e fuoco, nel sonno spalancato sul silenzio.
Solo adesso, dopo quarant'anni, meditiamo il segreto svelato del suo nome. La corsa strappacuore, per l'annuncio di una vittoria in battaglia, che si compie con la morte. Questo vuol dire Maradona.