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Il recente risultato delle elezioni austriache conferma un trend che si sta consolidando in molte democrazie occidentali: la crescente affermazione, seppur in diverse forme, delle forze della destra radicale. Il fenomeno si inserisce nell’ambito di un più ampio fermento politico e sociale che ha generato una forte contestazione nei confronti degli assetti istituzionali vigenti e delle élite poste alla loro guida. Sino a pochi anni fa i sentimenti antisistema diffusi tra la cittadinanza avevano alimentato movimenti e partiti collocati prevalentemente alla sinistra dello spettro politico (si pensi ad esempio alle proteste giovanili degli anni sessanta e settanta del ‘900). Specialmente dopo la grande crisi finanziaria del 2008, un vero spartiacque, il quadro è cambiato in modo significativo. Da quel momento nuovi soggetti politici e nuovi leader, schierati questa volta prevalentemente a destra, si sono affacciati prepotentemente sulla scena politica.

Le parole d’ordine da loro promosse hanno segnato la crisi del “modello cosmopolita”, il paradigma dominante durante la trionfante globalizzazione economica e culturale degli anni ’90, sostenendo al contempo una sorta di svolta “neo-nazionalista”. Questa nuova ondata è provenuta prevalentemente, come evidenziato chiaramente dall’esito del referendum sulla “Brexit” in Gran Bretagna e dall’elezione di Trump nello stesso anno, dalle periferie territoriali e sociali delle nostre società avanzate. Il vento di contestazione all’ordine esistente non si è placato da quel 2016 e si è anzi propagato a sempre più paesi, configurandosi come un fenomeno strutturale e non volatile. La sua portata ci pone di fronte a due importanti questioni: Il perché è sorto e quali sono le sue conseguenze immediate.

 Le cause

La grande crisi finanziaria del 2008 è stata il grande catalizzatore di alcune criticità latenti che da allora si sono manifestate in modo plateale. Sono emersi, in altre parole gli effetti dirompenti di alcuni cambiamenti.

In primo luogo, gli effetti non uniformi in termini di costi e benefici della globalizzazione economica e finanziaria. Dopo l’iniziale euforia si è infatti scoperto amaramente che essa ha determinato una profonda divisione tra vincenti e perdenti. Una parte della società (manager, tecnici altamente specializzati, accademici e intellettuali ecc.) ha goduto pienamente dei dividendi di questo processo economico, un’altra parte consistente, collocata prevalentemente ai margini periferici della società, ha invece subito la progressiva deindustrializzazione a favore dei i paesi emergenti e la concorrenza salariale della loro forza lavoro. Tutto ciò ha provocato un impoverimento di alcuni settori maggiormente vulnerabili della classe media e della manodopera industriale, associata a una grave diminuzione delle aspettative future.

Effetti analoghi hanno avuto, secondariamente, le sempre più tumultuose innovazioni tecnologiche, che hanno spiazzato, o messo a rischio, molte attività e professioni lavorative. Le incertezze legate a una evoluzione piena di incognite e abbastanza imprevedibile nei suoi sviluppi, all’apparenza non solo positivi, ha naturalmente aggiunto ulteriori elementi di angoscia in questo scenario.

Il terzo fattore è costituito dalla nuova ondata migratoria proveniente in buona parte dal sud del mondo. La velocità e la dimensione del fenomeno ha provocato una rilevante reazione psicologica in vaste fasce della popolazione. Tra gli stari più bassi, in particolare, si è cominciata a temere la concorrenza sul mercato del lavoro da parte dei nuovi venuti, nonché un loro accesso indiscriminato ai benefici dello stato sociale. Altre paure, questa volta generalizzate, sono state generate, per un verso, da una percezione crescente di insicurezza connessa alla criminalità; e, per l’altro, da una certa insofferenza verso costumi e abitudini molto differenti e giudicati incompatibili con la nostra cultura e i nostri ordinamenti.

L’ultimo fattore, non per importanza, è stato il profondo mutamento degli equilibri internazionali: anche se talvolta in modo confuso, gran parte delle popolazioni del mondo occidentale hanno cominciato a percepire una perdita di centralità. Si cominciato a capire, in altri termini, che Stati Uniti e Europa avrebbero dovuto sempre più fare i conti, in un contesto multipolare, con potenze emergenti sempre più ambiziose e potenti. Si è anche compreso che ciò poneva anche una sfida potenziale al nostro modello di vita, la cui solida egemonia è durata alcuni secoli e che ora appare al tramonto.

 Le conseguenze

La somma dei fattori sopra menzionati ha provocato una serie di conseguenze che hanno mutato il panorama politico degli ultimi anni. A livello generale, in buona parte delle nostre società sono emersi due tipi di insicurezza, spesso sovrapposti e che si rafforzano a vicenda: una insicurezza economica, legata come abbiamo visto alla diminuzione delle opportunità occupazionali e salariali e delle aspettative circa il futuro, e una insicurezza identitaria, legata a una minaccia, non importa se vera o presunta, delle proprie tradizioni, dei propri valori e dei propri stili di vita. Entrambe sono associate frequentemente al timore di perdere i propri mondi di riferimento, soprattutto in aree, come quelle rurali e della “provincia”, dove quelle tradizioni e valori sono custoditi gelosamente e che quindi sono meno avvezze ai cambiamenti rapidi e continui.

Da qui è sorta in modo urgente la domanda di una duplice protezione. Una protezione economica, che favorisce un’offerta politica all’insegna di nazionalismo economico fautore soprattutto di dazi doganali e di sussidi alle imprese locali. Una protezione culturale, che sposa politiche volte al recupero e alla riaffermazione dei valori del passato, spesso condite da una accesa ostilità verso l’eventuale “contaminazione” con le culture provenienti da mondi lontani e diversi.

All’inizio queste domande sono state sottovalutate e hanno accentuato nei cittadini collocati alle periferie territoriali e sociali la sensazione di essere “dimenticati”, di essere vittime di un mancato riconoscimento sociale- talvolta addirittura di esser oggetto di disprezzo in quanto portatori di costumi considerati arretrati e superati - da parte delle élite privilegiate e “altezzose” dei grandi centri urbani. Questi ultimi sono inoltre considerati gli incubatori di mutamenti vorticosi e senza controllo, che passano sopra la testa dei più deboli senza che la politica dominante (cosiddetta “mainstream”) se ne occupi adeguatamente. Non stupisce, date queste circostanze, la nascita di quello che potremmo definire un sentimento, via via più acceso e radicale, di rivincita sociale da parte delle periferie dimenticate o trascurate. Ciò ha dato luogo alla ripresa e all’accentuazione di una frattura che sembrava sopita, ma che ripreso vigore: quella tra città e campagna e tra centro e periferia.

Questi nuovi fermenti, all’inizio sotterranei, hanno fornito una formidabile finestra di opportunità per nuovi imprenditori politici che hanno elaborato una altrettanto nuova offerta politica, condita da una narrativa potentemente antagonista rispetto allo status quo culturale e ideologico. A mio avviso è questa una delle ricadute maggiormente significative di questa fase storica. Senza alcun complesso, questi nuovi leader hanno sfidato i valori tanto delle sinistre storiche quanto dei partiti conservatori tradizionali. Per questo motivo hanno pure dettato in buona parte l’agenda politica degli ultimi anni: sicurezza, politiche migratorie, sovranismo, ritorno del controllo statale dell’economia, recupero dei valori antichi, ecc. La novità è rappresentata quindi dal fatto che le periferie sfidano, o almeno ci provano, l’egemonia culturale delle grandi città cosmopolite, rivendicando con orgoglio una sorta di diritto di primogenitura, affermando la volontà di recuperare una dignità considerata, a torto o ragione, perduta. Va infine sottolineato che la forza e l’impatto dei nuovi partiti di destra non si concretizza solo in modo diretto tramite una loro affermazione come partiti di governo, ma anche indirettamente, grazie al condizionamento che esercitano nei confronti dei partiti conservatori moderati e in parte della stessa sinistra storica.

Per tutte queste ragioni, come già evidenziato, potrebbe essere risultare un serio errore di valutazione considerare questo nuovo vento di destra come un fenomeno effimero e contingente. Solo la ricomposizione delle fratture sociali sottostanti al suo successo potrebbe attenuare la sua forza.

Giampiero Cama*
Università di Genova
Dipartimento di Scienze Politiche e Internazionali