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di Franco Manzitti

C’era aria da coprifuoco in questa settimana a Genova, ma un po’ in tutta la Liguria. Tra un allerta e l’altra, gialla, arancione, rossa, poi di nuovo gialla, tra allarmi per il vento, per i temporali per le bombe d’acqua e, in fondo, poi le mareggiate, l’aria che tirava era pesante come lo scirocco carico, la macaja che Gianni Brera glorificava, ma che a noi pesa come un macigno di cielo grigio e basso, umidità stancante. Poca gente in giro, molti negozi chiusi anche in centro e questo allarme sottinteso, neppure troppo, che aleggiava da una parte all’altra della regione.
Coprifuoco, toque de queda, come si dice in spagnolo per indicare quasi una chiusura della città per ragioni gravi a quelle latitudini e qua, invece, per il clima cattivo, oramai fotografato, previsto, ora per ora, tra i bollettini dell’ Arpal, i resoconti della Protezione Civile, che diventa il nostro guardiano indispensabile.
E poi i reportage continui e Primocanale in diretta, a stecca per aprire subito la finestra su quello che accadeva, per aggiornarci. Per vivere, grazie alla televisione-servizio pubblico, la cronaca direttamente anche con combinazioni improvvise, come in quella tarda serata nella quale l’incidente dei tre Tir sulla A 26 si è sovrapposto di colpo all’allarme meteo con le fiamme sull’autostrada e il timore di una vera tragedia.

Cosa ci dice tutto questo in un autunno così pesante, in un mondo così difficile, nel bel mezzo di una campagna elettorale ligure che non ci aspettavamo e che ci sbatte sul muso anche i nostri grandi problemi e e insieme le diverse soluzioni per risolverli?
Ci dice che siamo una terra fragile, un arcobaleno meraviglioso e indifeso tra il nostro mare, quello delle praterie senza confini del nostro genio, dei nostri commerci, delle nostre capacità, esaltate da Fernand Braudel come il nostro mondo senza confini e la nostra terra, spesso aspra, secca, con pochi spazi, diventata negli anni così debole, rapinata dei suoi equilibri dalle colate di cemento, le case, le strade, le autostrade, le fabbriche e l’abbandono dei suoi territori verdi, dei suoi corsi d' acqua spesso tombati con il cemento, come una bara, una lapide sulla bellezza, sulla natura, sul creato.

Siamo fragili sempre di più e il clima cambiato cosi velocemente, sempre più aggressivo, fatto di bombe d’acqua, di temporali rigeneranti, di mare caldo, bollente, dove ora la fauna stessa cambia, dove arrivano le tartarughe carretta e specie mai viste a queste latitudini di pesci, di meduse, in uno sconvolgimento epocale, ci pone problemi urgenti, urgentissimi. Che gli allerta sottolineano sempre più spesso.

Quello stesso incidente sull’autostrada ci ricorda la estrema pericolosità delle nostre infrastrutture, ricavate in quegli spazi stretti, non mantenute come bisognava e come la tragedia del Morandi ha fatto scoprire e che sono continuamente bombe innescate, con i cantieri aperti, le corsie uniche, le chiusure.
Ebbene di tutto questo che riguarda in primis la nostra terra, il nostro “stato”, nelle città, nei paesi a rischio alluvione, sulla costa sotto rischio mareggiata, sulle montagne e in campagne a rischio frana, come si interessa la campagna elettorale?

In quel clima da coprifuoco me lo sono chiesto spesso, richiamato anche dalle urla dagli scontri elettorali, dalle polemiche, anche da una certa “frontalità” dello scontro politico, della contrapposizione soprattutto tra le candidature.
Questo scontro, oramai intollerabile, tra quelli del fare e quelli del no, etichettati da una parte e dall'altra instancabilmente, come se tutto si risolvesse lì, noi bravi, gli altri cattivi.

Se andiamo a sfogliare i programmi elettorali, che sono spesso intenzioni in prima battuta e poi anche documenti fitti pure troppo di idee, scadenze, soluzioni, scopriremmo probabilmente che ci sono definizioni di questa fragilità e descrizione di operazioni per affrontarla. Leggeremmo di “sostenibilità” da garantire, di blue economy e green economy da sostenere, finanziare, rincorrere, che siamo indietro! E figuriamoci se non lo hanno scritto e non lo hanno pensato!
Ma poi in concreto noi, usciti dal coprifuoco e anche un po' dall'allarme sulla fragilità della nostra Liguria, vorremmo sapere non la solita tiritera dei finanziamenti attesi di quella grande opera in costruzione, la cui scadenza viene garantita con tanto di data e di ogni impegno per rispettarla.
Vorremmo conoscere non solo la decisione di operare in un altro modo o la rivendicazione che quella decisione non sarà cambiata, anche se siamo politicamente dall'altra parte.

Noi vorremmo sapere cosa succede domani, non nel 2026 e nel 2030. Vorremmo sapere come si incomincia a lavorare dal giorno dopo delle elezioni.
Guai se incomincia la solita programmazione a blocchi di temi e di tempi. Ma lo sanno che questa regione è isolata più che se fosse un'isola e che questo isolamento peggiora anzichè migliorare e se tu in una notte vuoi viaggiare per motivi di urgenza, per correre magari in un ospedale attrezzato da Albenga a Savona, trovi l'autostrada chiusa per cantieri e l'Aurelia bis inesistente e l'Aurelia normale intasata necessariamente.
Da anni si parla di questa indecenza delle autostrade assassine o pericolose, come l'altra notte sulla A26 infuocata e se ne parla da ancor prima del Morandi e della manutenzioni che ora si fanno tutte insieme e di colpo in secula seculotum.

E intanto non si è fatto nulla, neppure sul piano dell'informazione. L'autostrada chiude di notte e la concessionaria se ne frega di quello che accade là sotto, non comunica e le istituzioni locali incassano lasciando i viaggiatori allo sbando.
Siamo una terra fragile e indifesa e qui non è questione di “saper fare” o di dire “si” o “no”. Ma di agire, sapendo che le emergenze bussano sempre, non rispettano i programmi dei candidati presidenti e le buone intenzioni di tutti quelli che corrono per andare a rappresentarci degnamente nel Consiglio regionale. Cosa succede domani?