“Nell’epoca dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario”. Comunemente questa affermazione si fa risalire a George Orwell, lo scrittore che ha indissolubilmente legato il proprio nome a due libri su tutti: “La fattoria degli animali “ e “1984”. D’acchito, quell’atto rivoluzionario, “dire la verità”, rimanda immediatamente alla politica.
E ci si domanda: si possono vincere le elezioni dicendo la verità? Personalmente non ne sono così convinto. Nei decenni, centinaia di persone si sono cimentate nella conquista del consenso barando con le parole. In pratica, ognuno di costoro - i grandi statisti come i piccoli operatori di partiti e movimenti – hanno cercato di ottenere il voto degli elettori dipingendo spesso la realtà in modo difforme dalla… realtà.
La conclusione sarebbe che chiunque si cimenti con la politica sia un disonesto, nel senso comune del termine. Ma non lo credo. Piuttosto, bisogna ritenere che i politici facciano proseliti dicendo ciò che molti - anche se non tutti - hanno l’esigenza di sentirsi dire. E questo vale tanto per chi ha opinioni orientate sul centrodestra, quanto per chi le ha verso il centrosinistra. Basta notare una cosa: ciò che si afferma quando si sta all’opposizione vale molto meno, o non vale affatto, quando si arriva al governo.
In generale, quello del ponte San Giorgio a Genova – l’ex Morandi – costituisce un caso di scuola. In Italia abbiamo decine di leggi e leggine che rendono una simile opera sì realizzabile, però con tempi molto più lunghi. Si è voluto fare prima e dunque si è derogato a quelle norme. Ovviamente tanti sono arrivati ad una conclusione: se si può fare una volta, si può fare sempre.
Ciò è vero, però solo fino ad un certo punto. Magari, anzi sicuramente, ci sono regole che rispondono all’autoconservazione dei burocrati e della loro attività. Però ce ne sono altre (vedi l’antimafia o l’anticorruzione) dalle quali non si può comunque prescindere.
Ed è proprio in questi spazi che occorre la buona informazione. Servono cioè i giornalisti che compiano l’atto rivoluzionario di dire la verità. Premessa: solo chi vuol tentare un risparmio peloso, cioè editori non degni di tale definizione, ritiene che si possa fare informazione senza giornalisti. Costoro, però, non devono conquistare dei consensi, quindi possono permettersi il lusso di dire come stanno le cose.
Per loro, anzi, la verità non è un lusso. Quindi hanno il diritto-dovere di dirla senza preoccuparsi se a qualcuno (in primis proprio i politici) faccia o non faccia piacere. La domanda che rivolgo prima di tutto a me stesso, però, è questa: i giornalisti dicono sempre la verità?
Il mestiere ha dei limiti fisiologici (fonti che si rivelano inattendibili), tuttavia dovrebbe tendere al vero. Cioè fare il possibile affinché un fatto venga esposto così com’è, lasciando poi ad altri l’interpretazione. Pronti a chiedere scusa in caso di errore, sempre possibile, e in ogni caso avendo cura di distinguere in modo netto la notizia rispetto ai commenti.
Fatemi dire, forse a causa della mia età, che sempre più raramente è così. E’ giusto affermare che non puoi consentire, per esempio a dei magistrati, di fare politica e poi, perché è andata male o perché c’è stato un ripensamento, di tornare a fare l’accusatore o peggio a emettere sentenze.
Perché ai giornalisti, dei giornalisti, invece ciò è concesso? Se faccio politica militante o addirittura vengo eletto per un partito, com’è pensabile che esaurita quella parentesi torni al mestiere di raccontare i fatti come se nulla fosse accaduto? Indipendenti bisogna esserlo e anche apparirlo. In più c’è una questione di credibilità. Viene chiesta ai politici. È indispensabile ai giornalisti.