Da fanatico lettore di George Simenon e, soprattutto, delle lente e splendide indagini del suo commissario, Jules Maigret, mi sono appassionato agli ambienti in cui i suoi personaggi si muovono. Tra questi, le portinerie dei palazzi parigini, dove simpatiche o arcigne signore diventano tasselli imprescindibili per la soluzione dei casi più complicati. Chiuse nei loro gabbiotti, avvolte in odori di solide “soupes”, vedevano e controllavano tutto. Ogni movimento degli abitanti. Sospettose per formazione, diventavano, così, preziose aiutanti del commissario parigino.
A Genova era il grande scrittore Antonio Tabucchi che insegnò nella nostra Università la lingua portoghese a ricordare la portinaia del palazzo del suo istituto (mi pare fosse in via Cairoli) per un odore di minestrone incancellabile dalle narici. Raccontò alla scrittrice Laura Guglielmi che lo aveva intervistato: “Come Proust insegna, quello che muove la memoria sono gli odori e i sapori. Il mio odore di Genova è l’odore di minestrone che ho percepito per dodici anni nell’androne del mio istituto, ubicato in un palazzo privato, piuttosto fatiscente. Era la portinaia che faceva il minestrone tutti i giorni. Quando io arrivavo sentivo questo odore che si misturava alla grammatica storica, alla filologia, alla sintassi, alla letteratura”.
Non ho idea se a Parigi ci sono ancora molte portinaie. So, però, che a Genova la maggior parte delle portinerie dei caseggiati è vuota. Certamente una questione di costi di amministrazione. Le portinerie oggi attive, generalmente, funzionano grazie alla cura di bravissimi immigrati, prevalentemente indiani.
Insomma tutta questa premessa per dire che Genova è senza portinai/e. Ma l’allarme è scattato in questi ultimi mesi anche per la chiusura quotidiana, ahimè, di negozi importanti, alcuni addirittura storici. Chiudono a ripetizione in centro, e si aggiungono alle chiusure drammatiche nelle periferie e nei caruggi. Questo fenomeno non è solo un impoverimento economico molto significativo, ma un allarme per la sicurezza della strada, del quartiere. Senza i negozi di zona si perde il controllo sul territorio, perché queste strutture così vitali sono un grande presidio sociale. Lo abbiamo verificato durante l’isolamento della pandemia. Botteghe vitali che hanno un continuo dialogo con i clienti, commercianti che se non vedono da tempo una persona si preoccupano. Vitali come sono, lo erano, le edicole, dove, la mattina, si ricevevano le prime notizie proprio dall’edicolante che diventava, anche per noi giornalisti, un termometro dell’opinione pubblica in diretta.
Ci dobbiamo preparare, o peggio, abituare a una pericolosa “Genova senza”? Con questi segnali che si aggiungono agli altri numerosi “senza” da tutti urlati in questi giorni di campagna elettorale, ma” senza” che arrivino ipotesi di contrasto.
Anni fa si cercavano idraulici, elettricisti e falegnami diventati personaggi da tutelare col Fai (fondo per l’ambiente), cioè da tutelare come le abetaie, poi le tragiche notizie sul calo dei medici e degli infermieri, così follemente provocato una trentina di anni fa da una politica demenziale preoccupata dai cosiddetti “sprechi”, politica che ha determinato la chiusura di reparti e , addirittura, medi e piccoli ospedali. Il “senza” si è esteso ai tornitori, ai bagnini, ai baristi, ai calzolai.
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