Non ho mai scritto un editoriale su vaccini o green pass, un comportamento che fa di me un uomo saggio: gli argomenti su cui riflettere, del resto, sono così tanti che ho sempre trovato una valida scusa per evitare di sporcarmi le mani nel pacciame dell’attualità. Poi l’altro giorno mi sono ritrovato a conversare con il prof. Angelo Reggiani, ricercatore senior dell’Istituto Italiano di Tecnologia, e ho cambiato idea.
Il professore, visto così, mi è sembrato un tizio abbastanza normale: era vestito come dev’essere vestito un ricercatore, cioè senza particolare attenzione. Indossava una camicia di cui non ricordo bene la fantasia, forse c’erano dei quadri: sopra la testa riposavano delle grandi cuffie con microfono e la sua figura non era centrata benissimo nello schermo del pc, come se Reggiani sentisse l’urgenza di staccare la connessione Skype per tornare alle sue faccende.
Lo scopo della conversazione era capire, il che getta un fascio di luce su una mia certa inclinazione a sopravvalutarmi, il risultato di una recente scoperta scientifica: il prof. Reggiani, insieme ad altri due colleghi con titoli altisonanti, ha trovato un modo per evitare che il coronavirus (proprio lui) riesca a entrare nelle cellule. I ricercatori, in pratica, sono riusciti a nascondere la porta di accesso alla cellula, così il virus entra dal naso (o dalla bocca) ma poi non trova il modo di riprodursi nel nostro organismo. Figo, no? Molto, lo devo riconoscere, e questa sommaria spiegazione mi sarebbe dovuta bastare.
E invece, no, ho osato: “Professore, mi spieghi, come siete riusciti, tecnicamente parlando, a ottenere un simile risultato”? Lui mi ha guardato per qualche istante con l’aria che ha Mike Tyson quando viene sfidato a fare a botte da Woody Allen poi, visto che avevo messo su il sorriso più intelligente del mio ridotto arsenale, ha tirato un sospiro ed è partito: “Allora, noi abbiamo semplicemente bloccato il recettore ACE2 utilizzando un aptamero di DNA, cioè un breve filamento oligonucleotidico che è capace di legarsi in modo specifico al residuo K353 di ACE2, rendendolo inaccessibile alla proteina spike”. Dal sorriso alla faccia da ebete il passo è stato brevissimo, cioè i circa dieci secondi che il prof. ha impiegato a completare la frase: per fortuna, siccome lui è una persona intelligente e io non manco di autoironia, ci siamo fatti una risata e mi sono accontentato della storiella della “porta sbarrata al coronavirus” che non era poi così male.
Però poi dopo, con più calma, ho pensato che fosse giusto mettere per iscritto qualche considerazione su questa chiacchierata e su come questa piccola esperienza si inserisca nel quadro della quotidiana battaglia anti scientifica di strati marginali, ma chiassosi, della popolazione italiana.
Se invece che provare a capire sul piano tecnico, quindi più in profondità, la portata della scoperta di Reggiani io avessi provato a contestarlo, cosa sarebbe successo? A cosa mi sarei potuto appigliare io, bestia immonda della medicina, per sopraffarlo nella disputa? E lui, cosa avrebbe pensato della mia meschinità?
Credo che sia ciò che pensano, quotidianamente, i medici italiani che ascoltano giornalisti, opinionisti, portuali e altra varia umanità azzuffarsi attorno a tematiche di cui ignorano tutto: non sanno nulla di nulla, non distinguono un virus da un portapenne, eppure si esprimono con tronfia sicumera, parlano di diritti, di bambini, di titoli anticorpali e altre simili amenità. Se prendessero una sola pagina del più semplice tra i libri di medicina (supponiamo che ce ne sia uno) si farebbero scoppiare la testa per comprendere tre frasi di senso compiuto. Che cosa ci ha portati a essere così?
Ora è arrivato il super green pass e sono sicuro che da oggi (anche sotto questo articolo quando sarà postato su Facebook, anche se ho cercato di ingannarvi con un titolo fuorviante, tanto nessuno va oltre il titolo prima di lasciare il commento), ci saranno tonnellate di proteste contro l’incredibile ingiustizia che viene perpetrata alla libertà di scelta dei singoli cittadini.
Per questo voglio raccontarvi, ma questo giuro che è breve, un aneddoto che ha a che fare con la libertà di scelta. Genova, ospedale Galliera, fine gennaio del 2020: dopo qualche ora di anticamera, con un febbrone da cavallo trovo posto su una poltrona interna al pronto soccorso. Sono bianco come un cencio, buttato li come uno straccio: a un certo punto, in modo del tutto casuale, incrocio lo sguardo del dott. Giovanni Cassola, infettivologo dell’ospedale che avevo frequentato per qualche intervista. “Cantile, cosa ci fa qui”? Gli spiego che ho febbre alta e sto aspettando gli esami. Sparisce e torna dopo poco: “I suoi valori sono molto sballati, dobbiamo ricoverarla”. Io, stupito: “Doc, non sono mai stato in ospedale in vita mia”. E lui: “Si fidi”.
Eccola la parola magica: fiducia. Fiducia in quelli che hanno studiato così tanto che ora sanno cosa sia un aptamero, fiducia in chi davvero è in grado valutare i nostri titoli anticorpali, in chi cerca di salvare vite umane giorno dopo giorno. Fate finta di essere senza respiro, spaesati tra le barelle, confusi per la febbre: la fiducia è l’ultima cosa che vi resta. E’ preziosa, fatene buon uso.