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di Stefano Rissetto

Chissà che cosa è rimasto di Kharkiv, quella città che era triste anche quando non lo era, sarà stato l'inverno saranno stati due giorni senza mai vedere il sole, tanto da farci dubitare che se ne fosse andato. Mi era già capitato una volta di vedere in mondovisione, semidistrutto, un albergo dove ero stato, il Corinthia di Tripoli sforacchiato dai colpi di mortaio della guerriglia postgheddafiana. Ma una città intera rasa al suolo, quella no.

Che pena le macerie della cattedrale ortodossa della Santa Annunciazione, sopravvissuta al comunismo sovietico ma non alla sua contaminazione col peggio dell'Occidente, e quelle della chiesa dei Tre Santi che era l'edificio più recente e colorato in una città dove l'attrazione era il Museo del Carro Armato. Già, lì per il tempo del Soviet ci erano nati tutti i mezzi corazzati contrassegnati con la stella rossa, era una città cresciuta attorno alle fabbriche metallurgiche, si chiamava Metalist perfino la squadra di calcio.

Una città di gigantesche scatole da scarpe smarrite nella pianura senza speranza né orizzonte visibile, ora tutte in polvere, severe vestigia dell'edilizia pianificata, i vialoni spogli del centro scanditi dalle stesse insegne che si trovano in ogni città dell'Europa libera, che poi è soltanto libertà di darsi ad altri servaggi. I gatti di Kharkiv erano grossi e grassi, come il gatto mammone della favola nera. Ma forse era il gelo a temprarli.

Mi sembrava una città triste o forse era solo un presagio. Dopo il museo di meccanica militare, l'altra cosa da vedere era il vuoto. Ovvero il niente della grande piazza delle adunate, una delle più vaste del mondo, allora - era il febbraio 2009 - sormontata da una enorme e torva statua di bronzo di Vladimir Lenin. Quella i russi non ce l'hanno fatta a distruggerla adesso, l'avevano già arrancata dal piedistallo gli ucraini, nel settembre del 2014.

Su un angolo della piazza, un enorme manifesto tipo elettorale annunciava l'evento dell'anno: un concerto di Toto Cutugno nell'agosto successivo allo stadio. Quello stadio che era ancora un cantiere, tutto da rifare per l'Europeo del 2012. Sempre sulla piazza affacciava chi diceva un casinò, chi un night, alla sera vedemmo che ci arrivavano grosse limousine bianche dai vetri scuri, come quelle che da noi servono le discoteche; e i buttafuori all'ingresso avevano strane palette, casomai a qualcuno fosse venuta voglia di entrare con la pistola, erano metal detector portatili.

Alla partita la dirigenza del Doria fu sistemata nella parte cantiere, a ridosso di una grossa gru. La stampa dalla parte opposta, in mezzo alla gente, su seggiolini di plastica glassata di ghiaccio, senza prese elettriche a disposizione. Ne trovai una vagante, scoprii troppo tardi che serviva al bollitore per il tè dei vip locali, un soldato massiccio dal cappotto di feltro tirò via il cavo della prolunga dal mio elaboratore mentre scrivevo, con uno strappo violento, almeno riuscii a non far cadere la macchina e a far finta di niente mentre quello mi urlava di tutto in una lingua per fortuna ignota. Però trasmisi tutto al giornale alla perfezione, il wi fi funzionava a meraviglia.

La sala partenze dell'aerostazione era un angusto prefabbricato di metallo, non riuscii ad appartarmi nel minuscolo servizio per togliermi la calzamaglia doppia e la maglia di lana doppia e le calze doppie e insomma tutto quello che era servito per i cinque sotto zero delle tre ore allo stadio, o meglio quasi tutto perché sorvoliamo sulla qualità del rifornimento preventivo di carburante calorico. L'aereo veniva da Venezia ed era in ritardo, partimmo tre ore dopo l'orario, intanto mi lessai sia nell'attesa che nelle due ore sul piccolo Bombardier di una compagnia del Nordest e arrivammo che era già l'alba.

Nella borsa avevo un piccolo gaglioffo ricordo di quella città che oggi è una cicatrice nell'anima e nella memoria. Appena atterrati in Ucraina, ci avevano detto che avremmo alloggiato al Cicikov Hotel, in via Hoholya. Cicikov, Gogol: certo, le "Anime morte". Forse la cosa più utile da leggere, per capire quello che sta succedendo laggiù e anche nel cuore di ognuno di noi. Forse uno dei tanti segni della contraddittoria e oscura grandezza di un popolo che non è un popolo solo, tanto che lo scrittore è considerato un russo dai russi e un ucraino dagli ucraini. Una volta nella mia stanza, aprii il cassetto dove di solito c'è la Bibbia. Beh, c'era un altro libro, una copia tascabile di quel romanzo in ucraino, in caratteri cirillici. Ora sta nella mia libreria, proprio alle spalle della scrivania. "La sete di possedere - dice Pavel Ivanovic Cicikov, Consigliere di Collegio e mercante di anime - è causa di ogni male: fu per essa che accaddero tutti i fatti che il mondo chiama poco belli". Chissà se c'è ancora quell'albergo e se altrimenti i suoi mattoni conservano ricordo delle insonnie su cui nel tempo avevano vegliato.