L'uomo più veloce del mondo è Victor Campenaerts, detentore del record dell'ora con 55,089 km. La scorsa estate, durante i Giochi di Tokyo, il trentenne ciclista fiammingo era davanti alla tv: non ha potuto correre la cronometro su strada, vinta da Primoz Roglic, perché i posti per nazione erano solo due e il selezionatore belga li aveva riservati a Wout van Aert e Remco Evenepoel. Così Campenaerts è rimasto in Belgio perché dovevano gareggiare corridori come l'iraniano Saeid Safarzadeh, arrivato a 10'10" da Roglic, l'algerino Azzedine Lagab, giunto con 10'17" di ritardo, e Ahmad Badreddin Wais, rappresentante del "Refugee Olympic Team", ultimo a 13'36" dallo sloveno.
Qualcosa di simile accadrà ai prossimi Mondiali di calcio. Fra Italia, Portogallo e Turchia, due su tre resteranno a casa, come era capitato agli stessi azzurri e all'Olanda nel 2018, per fare spazio tra le altre allora ad Arabia Saudita, Iran, Egitto e Panama.
Tutto sommato l'Italia del calcio, che rischia l'esclusione dalla fase finale del Mondiale 2022, avrebbe dovuto rinunciare a iscriversi non appena ufficializzata la scelta del Qatar: un Paese grande quanto l'Abruzzo ma, al contrario della terra che aveva visto scintillare l'eretico Pescara di Galeone, del tutto privo di tradizione calcistica. Questo lembo di Penisola arabica è una minuscola valvola di sabbia che sigilla il più grande giacimento al mondo di gas naturale: un forziere che permette alla corte dell'Emirato di comprarsi pezzo dopo pezzo l'Occidente, consegnatosi dopo la rinuncia al nucleare alla dipendenza dal fossile, salvo tardivi e sanguinosi ripensamenti in corso. La penetrazione qatariota in Europa a colpi di miliardi riguarda ogni comparto socioeconomico e culturale; ed è fatalmente arrivata anche a quel mondo che è la prosecuzione della politica con altri mezzi, ovvero lo sport. Nel 2016 a Doha si era corso il Mondiale di ciclismo, prima letteralmente nel deserto e poi in un circuito senza spettatori, lungo una città fantasma di grattacieli disabitati o in costruzione; l'ordine di arrivo imperiale, con tre già iridati sul podio (Sagan, Cavendish e Boonen), non aveva riscattato il senso di desolazione che danno le cose fuori posto, senso accentuato dalla premiazione officiata per ovvi motivi senza né bottiglie di champagne né vallette.
Il solo prendere in considerazione la candidatura del Qatar, figuriamoci accettarla, è stato il segno definitivo di resa dello sport - che poi appunto tenta di rifarsi una improbabile verginità con le infinite scorciatoie del politicamente corretto, ammettendo così alle Olimpiadi una squadra di rifugiati ma non un terzo belga alla cronometro su strada - alle ragioni del profitto. Ecco perché il mondo dello sport avrebbe dovuto trovare la forza di sottrarsi agli ingranaggi grotteschi di una fiera che, pur di essere allestita dove in natura sarebbe impossibile, snaturerà fino in fondo la tradizione, in stadi al chiuso con aria condizionata e svolgimento alla fine del prossimo autunno boreale, per le prevedibili conseguenze sui calendari delle altre competizioni.
Non sarebbe, sul piano strettamente morale, una vergogna restar fuori da questa baracconata. Però se restiamo al nostro rango di italiani tifosi degli Azzurri, assai spiacerebbe non provare a giocarcela, specie dopo aver appena vinto l'Europeo. E qui risalta, forse perché ci siamo di nuovo in mezzo noi, l'assurdità di una formula che - per salvare una presunta dimensione planetaria di un fenomeno prettamente connaturato all'Europa e a quell'altra parte di Europa frutto delle migrazioni nell'America del Sud - allarga a 32 posti la fase finale, ma ne riserva assai meno della metà alla parte del mondo che, tra i tanti suoi meriti storici, ha fatto nascere e crescere il calcio.
Andiamo a Lisbona e muoviamoci verso Est: Portogallo, Regno Unito che nel calcio vuol dire Inghilterra Scozia, Galles e Irlanda del Nord, Eire, Islanda, Svezia, Norvegia, Finlandia, Spagna, Francia, Svizzera, Italia, Germania, Belgio, Olanda, Austria, Ungheria, Cekia, Slovacchia, Slovenia, Polonia, Serbia, Croazia. Siamo già ben oltre quota tredici e quasi tutti questi Paesi meriterebbero di stare a prescindere a un Mondiale di calcio, di starci comunque. Non è la logica della Superlega, che procedeva per questioni di denaro: qui a determinare l'iniquità tecnica è un ormai anacronistico criterio territoriale della fase di qualificazione. Africa, Caraibi, Oceania, Vicino e Remoto Levante non dovrebbero essere penalizzati dalla collocazione geografica, ma neppure agevolati. Se davvero si vuole trasformare il pianeta in un pallone, si abolisca la dimensione continentale della fase preliminare, così - per esempio - le Isole Tonga se la vedrebbero con la Germania e il Turkmenistan con l'Uruguay. Sarebbe forse un modo più efficace di cosmopolitizzare il calcio: ve lo immaginate una sfida Argentina-Faer Oer sul campo di Torshavn ricamato su uno di questi scogli di basalto perduti nell'Atlantico del Nord? Nemmeno Soriano l'avrebbe immaginato.
Pazienza. Ce lo giocheremo con Portogallo o Turchia, Nord-Macedonia permettendo, il biglietto per il Qatar. Lo stesso paese di quel saltatore in alto che, proprio a Tokyo, aveva scelto di chiudere la gara olimpica con due medaglie d'oro, insieme con l'italiano Tamberi. Scelta contrabbandata per quintessenza dello sport, nell'euforia della contemporanea volata azzurra di Jacobs nei 100 piani; invece furberia opportunistica e un tempo si sarebbe detto levantina, come se fosse stato possibile essere così tanardi da barattare una vittoria sicura col rischio di trovarsi in mano l'argento. Lo sport, dispiace, è un'altra cosa. Competizione, merito, il migliore che vince, accettare la sconfitta inseguendo la vittoria: questo è lo sport. E un Mondiale a Doha, da cui molte squadre di valore resteranno fuori, perché colpevoli di essere europee, è il contrario dello sport.