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7 minuti e 46 secondi di lettura
di Stefano Rissetto

Non amavo le fiabe da bambino, figuriamoci adesso che manca poco allo sconto del mercoledì al supermercato. Conoscendo inoltre le penose trafile da affrontare, perfino da cronista, anche soltanto per farsi non dico ricevere ma rispondere al telefono da un assessore minore di un comune di provincia, credo poco alla fiaba che un occulto pifferaio sta zufolando ai docili topolini di tutto il mondo. Ovvero che non ci sia nulla di opaco, per non dire lugubre, dietro alla favola bella, appunto, dei candidi pargoli che, sillabando gli stessi concetti che l’amabile Melina Riccio scrive sui muri, ma con moltissima leggerezza e - soprattutto - profondità di contenuti in meno, assurgono a interlocutori di ONU, Casa Bianca e Vaticano nel tempo che di solito io ci metto, a meno che non si sia sotto elezioni, a farmi rispondere dall’assessore, per sentirmi dire che non ha tempo.

Da quando è cominciata questa astutissima recita a soggetto, sulle cui origini e fini nessuno dei tanti colleghi del “giornalismo investigativo” internazionale ha mai veramente avviato accertamenti, sempre più gente è convinta che si stia finalmente arrivando alla ricetta che renderà il pianeta più bello, più sano, più sicuro, più felice.

E allora bisognerà pure che Fantozzi si alzi dal fondo del cineforum della Casa del Mutilato di corso Saffi per dire non quella frase là, ma un’altra dello stesso valore liberatorio: la sostenibilità è insostenibile.

Per lo meno, quella “sostenibilità” che sembra il paese dei balocchi di Collodi, dove tutti migliorano la propria condizione e nessuno ci rimette. Invece bisognerà pure che il ragioniere di Villaggio dica che nessun cambiamento è a somma zero, in ogni evoluzione c’è chi vince e c’è chi perde, chi sta meglio e chi peggio.

Nella vulgata corrente, “sostenibilità” significa, stringi stringi, due cose:

1) rinunzia alle fonti energetiche classiche, a vantaggio di nuove tecnologie, tutte da sperimentare su vasta scala e in prospettiva altrettanto problematiche di quelle fossili, quanto a reperimento materie prime, costi di produzione e smaltimento;

2) riconversione dell’intero comparto industriale agroalimentare a nuova religione universale ecumenica, preferibilmente di rito vegetariano anzi meglio vegano, con l’uomo degradato da padrone (se lo sarebbe pure conquistato, quel ruolo) del pianeta a ospite alla pari di tutti gli altri, una lettura sorprendentemente (stante il creazionismo alla base delle Scritture) fatta propria anche da un uomo dei più ascoltati come il papa cattolico, che - sarà colpa mia, chiedo venia, mi vorrà perdonare, d’altronde è il suo mestiere - però più lo vedo e lo ascolto e più tristemente mi sembra uno che non creda più nelle cose che per uno come lui dovrebbero essere l’ABC, solo che non sa come dirlo al suo presunto popolo e allora, per rinviare il momento della resa dei conti, parla continuamente d’altro. Da uno come lui, lo ammetto nella mia debolezza di perplesso, vorrei più che altro un aiuto per esser non dico certo ma almeno rafforzato nella speranza che un giorno rivedrò i miei genitori; per dirmi di non buttare le cicche per terra non serve il capo di una religione, oltretutto non fumo più.

Come tutti i mondi perfetti popolati da comunità perfette progettati nel tempo dai filosofi, questo mondo “sostenibile”, predicato con fulminea e sospetta univocità da apprendisti benefattori, predicatori di ogni genere e - parola antipatica - “filantropi”, dato come raggiungibile in breve, è invece un mondo per pochi perché molto caro, non nel senso di bello ma di dispendioso.

Ammissione che comporta, anche nella cerchia dei professanti, un corollario imbarazzante dal sottotesto quasi - ci risiamo - religioso: per arrivare a questo mondo perfetto, dobbiamo privarci chi più chi meno di qualcosa. Esempio classico: non possiamo più pensare di riscaldare la casa in inverno alla temperatura abituale. Oppure per mangiare sano dobbiamo renderci conto che la qualità costa e quindi o spendere di più o mangiare meno. E, di privazione in privazione suggerita, nessuno si chiede con quali metodi, se non coercitivi, si possano convincere le persone a vivere peggio di prima. A meno che le privazioni suggerite, a gioco lungo, vengano appunto imposte a forza: tutti quelli che vollero edificare la società in teoria perfetta, lo dice la Storia, crearono nel concreto incubi orrendi vissuti davvero dai loro sudditi.

Da anni ormai si parla solo di “sostenibilità” e si antepone quasi a ogni vocabolo il suffisso “eco-". Nessuno però che osi dire la verità, ovvero che i due assi cartesiani necessari di ogni discorso serio, fondato, logico e razionale sul futuro dell’umanità, attenzione non del mondo ma dell’umanità, sono la demografia e il nucleare.

Sulla demografia purtroppo è logorante quanto inutile argomentare, tutti parlano di tutto ma nessuno o quasi si chiede come facciano a stare dieci persone in una cabina telefonica che è quello che sta succedendo, se la cabina telefonica vuol dire il mondo, che nel 1800 era abitato da un miliardo di persone e tre secoli dopo ne ospiterà dieci. Dieci miliardi di gente che respira, mangia e quindi - diciamolo con eleganza - completa il processo digestivo, vuole una casa, dei vestiti, insomma qualche agio. Come la mettiamo, visto che la cabina telefonica è quella e non la si può ampliare?

E veniamo al nucleare. Mi sono sempre chiesto, fin da subito, fine anni Ottanta, perché in tutta Europa soltanto in Italia l’incidente di Chernobyl avesse raso al suolo, previa tempestiva raffica di referendum, dell’industria nucleare nazionale e l’abbandono di una tecnologia di cui gli italiani (Fermi, Majorana, Rasetti, Segrè, Pontecorvo e Amaldi, i “ragazzi di via Panisperna”) erano stati precursori. Il nucleare è stato purtroppo l’ultimo campo scientifico in cui l’Italia era stata eccellenza assoluta nel mondo, americani e sovietici avrebbero infatti imparato da Fermi e Pontecorvo.

La nube radioattiva era dilagata in tutta Europa; perché solo da noi questa reazione davvero “populista”, se per “populismo” indichiamo i ragionatori di pancia e non di cervello? Perché tutta Europa andò avanti e noi, che eravamo stati i primi, gettammo il nucleare nel cesso, consegnandoci irreversibilmente a una dipendenza energetica dalle fonti del Medio Oriente e dell’allora URSS, le cui conseguenze continuiamo a sperimentare?

Il tutto mentre l’Italia “denuclearizzata” (basta una cartina del Continente con le centrali atomiche) è letteralmente circondata da impianti atomici nei pressi degli stessi confini nazionali e comunque assai più vicini di Chernobyl. La Francia infatti soddisfa con la fissione dell’uranio il 70% del proprio fabbisogno di energia elettrica e quindi può ben mostrare i denti a Mosca, invitando a rinunciare a petrolio e gas russi quelli come noi che ne dipendiamo. Ma ormai è tardi per tornare indietro: se anche ci ripensassimo, quasi 40 anni di desertificazione della ricerca, e con la ricerca una possibile ripresa dell’industria, richiederebbero altrettanto tempo per ripartire, mentre già incalzano i fanatici che pensano di riempire il Paese di giganteschi mulini a vento e di padelloni fotoelettrici su ogni tetto, scempiando anche in questo caso ambiente e territorio, convinti di risolvere il problema con sole e vento e magari, perché no?, coi criceti che girano nei ruotini e con dinamo obbligatorie come quelle di una volta riapplicate alla ruota anteriore di ogni bicicletta.

Quei referendum che sancirono una svolta in negativo, per la nostra industria ed economia nazionale, nonché per la nostra stessa indipendenza - lo vediamo nel corrente contesto bellico, regaliamo armi da usare contro il nostro gasista - come Stato, erano stati forse promossi in buona fede; ma dietro le buone intenzioni chi aveva davvero voluto la fine del nucleare in Italia? In Italia - ripeto - e solo in Italia, mentre nel resto d’Europa si andava avanti, anche perché gli altri non avevano ceduto all’isteria collettiva; i morti di nucleare (pochissimi nella storia, praticamente solo quelli di Hiroshima e Nagasaki, ma qui non c’entrava la tecnologia, e Chernobyl) fanno chissà perché paura, mentre per esempio i 400mila che tra noi ogni anno si ammalano o se ne vanno per malattie legate alla qualità dell’aria è come se non muoiano.

Nel nostro Paese c’era, e in parte c’è ancora, una consorteria potentissima di industriali del petrolio e del gas. Così come nel nostro Paese soltanto nei primi anni Novanta la solidissima politica estera filoaraba ha conosciuto qualche sporadica deroga. Che ai petrolieri e ai loro fornitori stranieri, facenti capo a Paesi molto influenti nel nostro, non piacesse l’idea di un’Italia avviata verso l’autonomia energetica non è certo ma è logico.

Certo invece è il nome dell’ultimo uomo di Stato italiano che tale autonomia energetica aveva cercato di raggiungerla. Si chiamava Enrico Mattei e nel dopoguerra era stato l’artefice di una politica estera stabile e autonoma da quella dei governi di passaggio, diretta a creare nel mondo una rete di estrazione che svincolasse l’Italia dalle forniture altrui e dalle pretese delle compagnie private. Attuata gran parte di quel piano, capì l’importanza del nucleare e avviò una struttura dedicata, che nel 1962 culminò nell’apertura della centrale di Latina, la più grande e potente in Europa, con l’Italia terza nel mondo per produzione di energia elettrica dal nucleare. Due mesi prima, l’aereo di Mattei era caduto a Bascapè. Per cause mai chiarite. E non è troppo lontano dal reale pensare, con un certo dispiacere, che l’Italia come Paese, con il suo sogno collettivo di progresso nel dopoguerra, sia finita lì, in quello schianto. Non, come oggi, in un piagnisteo.