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di Mario Paternostro

In quegli anni facevo l’inviato politico per il “Decimonono”. Carlo Rognoni era il direttore, un incredibile motore di idee, intuizioni e sana voglia di “dare buchi” alla concorrenza. Il periodo era politicamente quello giusto. Ciriaco De Mita guidava la Democrazia Cristiana e aveva cominciato e in buona parte realizzato un notevole rinnovamento. Con la sua gestione salivano al governo uomini come Sergio Mattarella, Mino Martinazzoli, il “giovane Goria”. Il duello con il leader socialista Bettino Craxi era quotidiano e divertente. De Mita amava Genova dove era stato eletto con un grande consenso. Qui aveva alcuni fedelissimi. Primo fra tutti il professore per antonomasia della Dc, Filippo Peschiera, coadiuvato da una “mente” della comunicazione politica: Alberto Gagliardi. Poi Ugo Signorini il miglior assessore all’Urbanistica che ha avuto la Liguria.

De Mita era “Ciri” per gli amici. Piombava in città una settimana sì e una no e a me toccava stargli addosso, dalla mattina alla sera. Perché De Mita era una macchina straordinaria di parole, di idee, di provocazioni e soprattutto di formule. Ti dava tutti i giorni più di un titolo. A Genova aveva inviato quello che noi cronisti chiamavamo “il proconsole”. Si trattava dell’onorevole Borruso, una sorta di colonnello perennemente in avanscoperta. Il sindaco di Genova era il repubblicano Cesare Campart, farmacista e cortese signore d’antan.

I dialoghi tra De Mita e Pippo Peschiera erano molto difficili da decifrare. A volte defatiganti. A un tratto il segretario della Dc poi presidente del Consiglio per poco più di un anno (tra il 1988 e il 1989) cedeva all’abilità del professore che era riuscito addirittura a tenere a bada i brigatisti rossi che lo avevano sequestrato nel suo studio e legato a un calorifero. L’eloquio di Peschiera era quello di un docente “americano”, parlava da pensatore un po’ contorto che soffre e spesso si strugge per quello che è costretto a dire. De Mita a un tratto cedeva e veniva l’ora intoccabile del tressette.
Stavo lì a fianco al tavolo, in genere di un ristorante, per esempio il celebre “Pichin” di vico dei Parmigiani rinomato per la cacciagione, aspettando che “Ciri” sparasse qualcosa di politico. A volte frasi complicate che avevano bisogno di una traduzione, vuoi per la particolarità del vocabolario del super leader scudocrociato, vuoi per il suo accento irpino per cui i “ragionamenti” che erano il suo forte diventavano “ragionamendi”. ” E l’efficientissimo fedele Mastella, organizzatore dell’annuale festa della corrente a Ceppaloni, era continuamente chiamato “Clemende”. Quel linguaggio che fece coniare a Gianni Agnelli la definizione che De Mita parlava come “un intellettuale della Magna Grecia.

Un potere totale durato sette anni, , da segretario Dc e anche presidente del Consiglio, mentre i due grandi partiti Dc e Pci si avvicinavano a un’ inesorabile lacerazione, quella che avrebbe portato alla “Cosa” di Occhetto e con la tempesta di Tangentopoli alla fine dello scudocrociato.

De Mita era un politico interessante e divertente. Potevi magari non condividerne le idee, ma la sua intelligenza ti narcotizzava.

Ricordo che una mattina portavo felice e libero dal lavoro mio figlio di pochi anni a spasso nei giardinetti di piazza Manin, quando un piccolo corteo di auto blu con scorte in testa e in coda si fermò. Dalla Thema grigia scura saltò fuori Ciriaco. Per salutarmi, dato che non mi aveva visto al suo seguito e fare due chiacchiere con il piccoletto.
L’ho ritrovato anni fa anziano a Nusco. Un augurio sincero e affettuoso, il mio, a un leader storico che si rimetteva in gioco facendo il sindaco del suo paese natale.