GENOVA - "L'ingegnere Morandi, se avesse voluto, lo faceva chiudere il ponte. Ma lui non ha detto nulla. I cavi sono nati già corrosi e lui lo sapeva". Lo ha detto in aula Michele Donferri Mitelli, ex numero tre di Autostrade e uno dei 58 imputati nel processo per il crollo del viadotto del 14 agosto 2018, che causò la morte di 43 persone.
Il manager ha spiegato che "i cavi secondari non servono a tenere in piedi la struttura. E i cavi primari, se il progetto fosse stato eseguito correttamente, sarebbero stati ben protetti. Ma i lavori vennero eseguiti male. E i problemi non sarebbero stati visibili a occhio nudo", ha continuato. Donferri si è avvalso della facoltà di non rispondere sull'intercettazione tra lui e l'allora numero due Paolo Berti dopo la condanna di quest'ultimo per la tragedia di Avellino, in cui morirono 40 persone.
Secondo gli inquirenti in quella conversazione si comprende che in quel procedimento Berti non avrebbe detto la verità per difendere la linea aziendale contribuendo all'assoluzione dell'allora ad Giovanni Castellucci. Il manager ha letto soltanto il verbale della sua testimonianza. "Non posso sapere se ci fossero ragioni economiche da discutere né so se fosse in atto qualche forma di proposta illecita".
L'imputato ha poi spiegato che i tecnici di Spea "facevano bene i controlli" e che il "problema era il management" in particolare "Galatà (uno degli imputati) non aveva più una consistenza manageriale". Donferri ha però ammesso di non avere mai guardato i report, le relazioni trimestrali "perché c'era un ufficio preposto con Di Taddeo".