GENOVA-"La corrosione dei cavi d'acciaio delle pile del ponte Morandi è iniziata subito dopo l'inaugurazione, ma nessuno ha provveduto a monitorarlo in modo adeguato".
Lo ha detto il pm Massimo Terrile, uno dei due magistrati titolari dell'indagine sulla tragedia del 14 agosto 2018 in Valpolcevera costata la vita a 43 persone.
Sono le indiscrezioni che trapelano dalla prima udienza del processo di ponte Morandi ripreso oggi, 28 gennaio, dopo un mese di stop deciso il 28 dicembre in attesa del parere della Corte di Cassazione sulla ricusazione del gup Paola Faggioni, richiesta poi rigettata dai giudici romani come già fatto dalla Corte di Appello di Genova.
Il pubblico ministero che conduce l'inchiesta con il collega Walter Cotugno, ha sottolineato come "i dirigenti di Autostrade per l'Italia di Roma e del tronco di Genova, ma anche i tecnici di Spea che dovevano controllare, sapevano che Ponte Morandi era una struttura a rischio, ma nessuno ha fatto nulla per prevenire la tragedia".
Terrile nell'udienza in corso nella tensostruttura installata nell'atrio del tribunale ha letto le pagine di un cospicuo memoriale in cui ha condensato la cronistoria di una tragedia annunciata.
L'avvertimento dell'ingegnere Morandi che si era raccomandato di monitorare in modo adeguato la struttura e rimasto inascoltato, le pile ammalorate, il cemento che si sbriciolava, i cavi di acciaio corrosi e pieni di ruggine, le fitta corrispondenza fra gli uffici di Genova e di Roma per programmare lavori però rinviati per anni, i report taroccati per nascondere la gravità della salute del colosso di cemento, le tante, troppe perdite di tempo che hanno portato alla tragedia di 41 mesi fa che ha causato la morte di famiglie che andavano in vacanza, di operai al lavoro, pensionati, ragazzi diretti al mare, quarantatrè vite gettate nel vuoto per risparmiare, procrastinare lavori che invece erano urgenti.
Le parole delle conclusioni di Terrile, che è sembrato leggere la trama di un romanzo dell'orrore con un tragico quanto evitabile finale, hanno inchiodato tutti sulle sedie della tensostruttura e delle altre aule collegate con l'udienza per evitare assembramenti: gli indagati, rappresentati dagli avvocati, e i pochi familiari delle vittime, su tutti Emmanuel Diaz e Egle Possetti, fratello e sorella e zia di alcuni deceduti, raggelati dalle parole del magistrato, ma anche rincuorati dalla forza di quella ricostruzione scientifica e didascalica che sembra non lasciare scampo nè attenuanti agli indagati.