Se un immigrato non ha fatto proprie "le regole essenziali del vivere civile", macchiandosi di "reati di rilevante gravità", è legittimo che la Questura non gli rinnovi il permesso di soggiorno, imponendo il ritorno in patria con la famiglia, nonostante l'uomo sia residente in Italia dal 2009, con moglie e figli di 7 e 4 anni e occupato con regolare contratto di lavoro subordinato. Lo ha stabilito il Tar della Liguria, respingendo il ricorso di un cittadino albanese contro la decisione della Questura di Savona, il 3 dicembre 2021.
L'uomo, infatti, è stato condannato a 3 anni di reclusione per 16 casi di spaccio di stupefacenti nell'arco di un anno. La seconda sezione del Tribunale amministrativo sottolinea che "la condanna per un reato in materia di stupefacenti, anche se non definitiva, costituisce elemento ostativo al rinnovo del permesso di soggiorno, senza necessità di alcuna valutazione ulteriore in merito alla pericolosità sociale dello straniero e al suo livello di integrazione nel contesto sociale italiano".
L'automatismo, tuttavia, viene meno quando "lo straniero abbia stretti legami familiari in Italia che impongono di procedere a una valutazione comparativa tra l'interesse alla sicurezza pubblica e quello alla tutela dei rapporti familiari, tenendo conto degli indici di integrazione sociale e lavorativa, dell'esistenza di legami familiari e sociali con il Paese di origine e della durata del soggiorno nel territorio nazionale".