Darren Aronofsky è uno dei più talentuosi e controversi registi americani. Per nulla incline al compromesso artistico è stato spesso accusato di essere autoindulgente, consapevole di sé, a volte anche troppo audace e pesante nel suo approccio al cinema. La sorpresa è che cinque anni dopo l'horror divisivo ‘Madre!’ spiazza tutti con l’adattamento di un’opera teatrale che affronta con una sensibilità emotiva inaspettata, ascoltando i suoi personaggi e i loro problemi, empatizzando con loro piuttosto che compatirli con una comprensione umana che non mostrava dai tempi di ‘The Wrestler’ (Leone d’oro nel 2008).
Protagonista di ‘The whale’ è Charlie, professore di inglese per un'università online, appassionato di letteratura e soprattutto del ‘Moby Dick’ di Melville, che non lascia la propria casa da molti anni. La sua sovralimentazione, a causa di una depressione legata al dolore per la morte del fidanzato, un ex-studente, lo ha reso gravemente obeso e vive muovendosi grazie ad un deambulatore, spesso assistito da una premurosa e amorevole infermiera. La salute si sta deteriorando rapidamente e non ha molto tempo da vivere anche perché si rifiuta di andare in ospedale, privo com’è di assicurazione sanitaria.
I suoi ultimi giorni trascorrerebbero senza incidenti se non fosse per due visite improvvise: un giovane missionario e la figlia diciassettenne che ha abbandonato insieme alla moglie quando aveva otto anni proprio per seguire la sua passione omosessuale. Una ragazza ancora amareggiata per quanto è successo, misantropa e arrabbiata col mondo intero (“Mi hai insegnato qualcosa di molto importante – gli dice a un certo punto-: le persone sono stronze”) con la quale sta cercando disperatamente di riallacciare i rapporti e riconciliarsi. Da questo momento in poi, come una piccola fiamma che si trasforma in fuoco, si riaccendono i sentimenti che da anni cercava di reprimere, facendolo venire a patti con la persona che era una volta e quella che è diventata.
Aronofsky ritorna con uno dei migliori film della sua carriera senza far nulla per nasconderne le origini teatrali con la macchina da presa che si muove agilmente attraverso un appartamento che è un ricettacolo di scatole di pizza, ninnoli accumulati per anni e pile infinite di saggi con una sola stanza che sfugge al caos: la camera da letto del fidanzato, rimasta come il giorno in cui è morto, nascosta dietro una porta chiusa a chiave e raramente visitata. Ciò nonostante non si avverte il minimo senso di claustrofobia perché tutto si concentra nella straordinaria interpretazione di Brendan Fraser, le guance inclinate che consumano il collo, la grande schiena larga e la gigantesca pancia che gli si riversa sull'inguine ma con gli occhi vivissimi di chi ama disperatamente la propria figlia. In molti casi il trucco viene utilizzato per cambiare l'aspetto di un attore, quante volte si dice "tutto il merito della recitazione sta lì". Qui non è così, anche sotto il peso di una tuta di 300 libbre (quasi 140 chili) e delle protesi che ostacolano gravemente ogni movimento ed espressione, a Fraser basta uno sguardo per commuovere ed emozionare, un uomo che racconta come si possa essere consumati da ciò che ci perseguita ma nello stesso tempo alla ricerca di una luce alla fine di quel tunnel che è diventata la sua vita.
‘The whale’ fa anche un ottimo lavoro per arrivare al cuore del motivo per cui molti di noi rimangono bloccati nel tipo di routine in cui si ritrova Charlie dopo anni di sconvolgimento traumatico ed emotivo: la vergogna. C'è così tanta vergogna in questo film, tra le sue continue scuse per quello che era e quello che è diventato. Si scusa con quasi tutti i personaggi per cose grandi e piccole, di solito in connessione con il peso o l’aspetto nella rappresentazione di una rete infinita di traumi e rimpianti, colpe che scorrono sotto vecchie croste purulente, dolorose fino a quando non vengono aperte. Una storia di amore, dolore e disperazione, magari non perfetta ma fortemente catartica ed emotiva che ricorda il potere del cinema e mette Aronofsky e Fraser in prima fila se non per il Leone d’oro sicuramente per gli Oscar.