Ma quante lacrime abbiamo a disposizione? Quante, da versare nei momenti di dolore vero? E' la domanda che mi torna in mente ogni anno l'11 gennaio ricordando la morte di Fabrizio De André quando davanti agli occhi rivedo una ragazza minuta minuta, avrà avuto al massimo quindici anni, cappotto blu, una lunga sciarpa grigia intorno al collo e un papavero rosso in mano (verrebbe da dire: uno dei mille della 'Guerra di Piero') che appoggiata ad una colonna della basilica di Carignano dove si stavano officiando i funerali di uno dei più straordinari artisti che Genova abbia mai avuto consegnava la sua disperazione ad un pianto dirotto, angosciato e irrefrenabile. Tutte le lacrime del mondo. Non smise un momento durante la cerimonia e neppure dopo, quando il feretro si allontanò verso Staglieno, inutilmente consolata da un'amica. Era la straziante ma straordinaria fotografia della grandezza di Fabrizio, il suo essere stato trasversale rispetto ad ogni età, ogni pensiero, ogni archetipo, ogni condizione umana e sociale. Un poeta vero, scomodo e irrequieto, portavoce delle contraddizioni di una realtà rassegnata: quella dei diversi, dei respinti, dei negletti, degli ultimi, dei condannati alla marginalità.
Ne ha raccontate, di storie e personaggi: graziose con gli occhi color di foglia, bambine con le labbra color rugiada, viole che sbocciano e rose che appassiscono, puttane e illusi. Il tutto fra sorrisi e sguardi, diamanti e letame: idee folgoranti, piccoli gioielli di rigore ed emozione, immagini consegnate per sempre all'immortalità. E via del Campo sta ancora là, dove l'aveva lasciata, al sicuro da quella tramontana che a lui piaceva tanto ma che spesso spazza via impietosamente tutto quello che c'è da spazzare e magari anche qualcosa di più, come i ricordi. Così anche oggi, ventiquattro anni dopo, non si può non pensare a quanto tutti noi ci siamo persi da quando se n'è andato, e non solo in termini musicali. Perché se i tempi sono incerti e confusi come quelli che stiamo vivendo, la mancanza di un pensatore libero davvero, di un'anima salva fuori da qualsiasi schema e qualsivoglia paradigma, fuori dal coro saccente dei soliti noti, crea un vuoto ancora maggiore, addirittura una voragine. L'assenza di Faber, quel soprannome così curioso che gli aveva dato l'amico Paolo Villaggio sottolineando in questo modo la grande passione che aveva per i pastelli colorati di una marca ai tempi molto nota, continua a far male.
Certo, le sue poesie disegnate sul pentagramma e ormai inserite in molte antologie scolastiche rimarranno per sempre ad alimentare la colonna sonora di nuove e altre generazioni. Ma più di ogni parola, più di ogni ricordo, va sottolineato soprattutto il modo con cui - come la dolente ragazza di Carignano – giovani e giovanissimi, poco più che bambini quando è scomparso, abbiano deciso comunque di adottarlo come un fratello maggiore, navigando a vista tra i fondali della sua poetica, i suoi versi e la nostra attualità, affidandosi a lui perché dispersi in un mondo privo di certezze e facendo proprio quel racconto di sofferenza e dolore, strazio e pena, angoscia e tristezza per un'umanità schiacciata dal Potere che De André ha cantato come nessun altro è mai riuscito a fare. Prima e dopo di lui.